mercoledì 29 aprile 2009

sic transit gloria gaynor.

Questi tempi e questi luoghi miserabili meriterebbero di finire nell'immondezzaio della storia, non fosse per il fatto che noi ci viviamo.

Non fosse per il fatto che ne respiriamo l'aria.

Non fosse per il fatto che quella strana paura che ti prende quando sei solo, altro non sia che la paura di restarlo per sempre.

Solo.

In questi tempi e questi luoghi miserabili...

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frenesia.

un racconto di Striker

Come ogni sera, da molto tempo a questa parte, mi ritrovo sulla veranda della villa di famiglia ad aspettare oziosamente che il sole beffardo si adagiasse oltre le alte colline che circondano la vallata, dove generazioni e generazioni di Saint Clair si sono avvicendate nella gestione di un patrimonio ormai dimenticato.

Rimango solo io, un nobile viziato che non ha mai osato sporcarsi le mani nelle vili questioni delle comune genti, tanto che, dopo aver liquidato tutti i beni mobili e immobili, sono rimasto a goderne i frutti nella più totale apatia.

Finché non incontrai lei.

Era una visione celestiale e insieme oscura, una dama nera che ridefiniva ogni concetto di bellezza terrena.

La incontrai in una squallida taverna del paese dove passavo solitario le mie tristi notti. Capii subito che non era una donna come le altre. Aveva un fascino misterioso e altero, una donna per cui, sentivo, avrei fatto qualsiasi cosa. Qualsiasi.

Il nostro rapporto procedeva lento ma solido, lei schiva ma autoritaria, io la rispettavo come donna e mi dimostravo accondiscendente alle sue bizzarre richieste.

Ci potevamo incontrare solo dopo il tramonto e all’alba lei doveva tornare rapidamente a casa, a causa della sua famiglia, che le imponeva una curiosa etichetta.

Le nostre notti insieme si svolgevano in maniera lenta e misteriosa. Le piaceva bere, ma per quanto il vino scorresse sulle sue labbra voluttuose sembrava mantenere una lucidità e un autocontrollo stupefacenti. Camminavamo a lungo, fino a che sentivo che l’alcol entrava in circolo e faceva il suo effetto, annebbiando i ricordi e ottenebrando le sensazioni, fino a che ci ritrovavamo nella nostra alcova, l’uno nelle braccia dell’altro, trasportati da una passione dirompente e selvaggia, sopraffatti da una sorta di ebbrezza, di consapevolezza del proibito che non riuscivo a scrollarmi di dosso nemmeno il giorno dopo quelle folli notti.

All’epoca riemergevo da un periodo buio e tetro, non avevo coscienza di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.

Era una notte fredda e oscura, le nubi che si addensavano presagivano quello che non mi sarei mai aspettato. Mentre passeggiavamo verso la nostra carrozza, di ritorno dal villaggio di contadini dove la mia compagna notturna voleva essere portata di tanto in tanto, accadde un imprevisto: un uomo, sulla cinquantina, con diversi litri di vino in corpo si avvicinò a noi, e puntando una croce di legno improvvisata in direzione della mia donna imprecò, della parole senza senso dettate dall’alcol ma che risuonavano nelle mie orecchie con una certa familiarità: mostro, demonio, mia figlia… solo 14 anni…. vergine… upyr! A questo punto le urla si trasformavano nella sua lingua di origine, probabilmente russo, delle quali capivo ben poco, pur avendo fatto affari in passato con questa gente. Ma la cosa che più mi scosse fu’ la reazione di lei. Alla vista della croce si aggrappò al mio braccio facendomi incredibilmente male, nonostante la sua esile figura. La paura dipinta sul suo volto mi fece rabbrividire, e quando scattò in direzione opposta mi lasciò sgomento davanti a quell’uomo invasato. Cercai invano di raggiungerla, la sua corsa era incredibilmente veloce e la persi molto presto. Amareggiato, confuso, impaurito, stavo per tornare alla carrozza, quando davanti a me si parò uno spettacolo di luci incredibile. Migliaia di piccole lucciole danzanti si frapponevano tra me e il bordo del villaggio circondato da una fitta vegetazione. Rimasi abbagliato da quello spettacolo, tanto che non saprei dire quanto rimasi lì pietrificato. Le luci volavano in cerchi concentrici perfetti, disegnando spirali dalla lunga scia luminosa. A un tratto le luminescenze si misero in formazione, disegnando una figura umana. Era molto simile alla mia dama oscura, tanto che poteva essere un suo lontano parente. Ero estasiato da questa visione che infondeva un senso di calma apparente. Non ricordo molto di quell’episodio, tranne che la splendida figura si avvicinò al mio volto, poi una specie di calore bianco si diffuse seguito da una breve fitta alla gola.

Al mio risveglio mi ritrovai nella mia stanza, come ci fossi arrivato non mi è dato da sapere.

Rimasi tutto il giorno nel letto, le finestre sbarrate e le tende a coprire il sole, bloccato da una stanchezza cronica, sembrava che le mie forze fossero prosciugate. Solo dopo il tramonto ricevetti la visita della mia amata. Aveva uno sguardo diverso dal solito, un misto di amarezza e rassegnazione che non saprei spiegare. Cercai di raccontarle quello che ricordavo ma lei mi ripeteva che era stato solo un brutto sogno e che dovevo riposare. Rimase accanto a me tutta la notte, ma benché fossi stanco non riuscii a dormire se non alle prime luci dell’alba. Il mio sonno era funestato da orribili incubi, dove vedevo una giovane figura femminile venirmi incontro, ma quando riuscivo a vederla meglio in viso, rimanevo inorridito dal volto sfigurato e il sangue che le colava copioso dal collo sul suo vestitino bianco. La cosa che mi lasciava paralizzato dal terrore era la sensazione di familiarità con quella scena, ma non riuscivo a ricordare dove l’avessi vista.

La dama oscura venne a me in una notte nella quale sembrava avessi ripreso tutte le mie forze. Mi sentivo incredibilmente bene, provavo una sensazione di potenza inedita per uno come me, benché non avessi mangiato da tempo immemore.

Quando venne a me capii che era per darmi una spiegazione di tutto quello che avevo passato. Il suo volto tradiva una nota dolente, come di una cosa che va’ fatta a tutti i costi, suo malgrado.

Alle mie domande rispose nel più infame dei modi, portandomi davanti lo specchio della toletta che era stato misteriosamente coperto. Togliendo il tendaggio il mio cuore ebbe un sussulto, seguito da quella consapevolezza che avevo sepolto nel mio animo perché troppo scomoda da accettare. Lì dove doveva esserci la mia immagine c’era solo il riflesso della mia stanza da letto, orribilmente vuota.

Se ci fosse stato qualcuno oltre a noi avrebbe sentito le mie urla di terrore lacerare il silenzio della notte, quando, in preda a una sorta di frenesia, mi lanciai contro la mia amata per sventrarle la gola e mangiare il suo cuore nero.

Tutto quello che avevo sopito degli ultimi mesi, tutti gli orrori che avevo cancellato dalla mia mente erano emersi nella loro crudeltà. Ero stato complice di un mostro che mi aveva privato della mia umanità e portato negli abissi della lussuria.

Ora del suo corpo non rimane che un mucchietto di cenere, ed io rimango qui, come ogni notte ad aspettare. Aspettare che qualcuno della sua diabolica famiglia venga a reclamare giustizia, che porti con sé quello che mi è stato negato per oltre cinquant’anni: LA MORTE!

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for president!

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broken.

C'è qualcosa di indefinibile, di incredibilmente struggente in questa canzone...

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begorath tre.

Nel fardello di esperienze di ciascuno di noi c’è il ricordo del giorno più importante della sua vita. Non è una cosa data una volta per tutte. C’è il giorno del diploma, che poi diventa la prima esperienza sessuale, che poi diventa il giorno della laurea, che poi diventa il matrimonio, che poi diventa quando nasce tuo figlio, che poi diventa quando si laurea.

Per me non è stato così.

Ancora oggi, che certamente i giorni che mi restano da trascorrere sono meno di quelli che ho sinora vissuto, il giorno più importante della mia vita continua ad essere il 21 luglio 1969.

Mia madre c’era andata giù pesante. Il volto e le chiappe mi dolevano anche più del mio orgoglio scozzese. Con la testa sotto il cuscino, sentivo mio padre in salotto ululare come un lupo, mentre mia madre, strillando sottovoce, diceva:
«Ora basta, Sean Bloomfield! Vuoi che tutta Begorath ti creda pazzo?»
«Almeno avranno qualcosa di cui sparlare che non siano le solite storielle di corna, di bestiame o delle presunte amanti di Padre Kenneth!», ruggì mio padre.
Nina ogni tanto si affacciava in camera mia e sussurrava scuotendo la testa:
«Stavolta l’hai fatta grossa, Jimmy!»

Anni dopo mi maledisse di quel giorno, perché fu il giorno in cui prese la decisione definitiva di andarsene di casa, a Londra. Dove trovò lavoro come hostess per la British Airways. Dal lì, nel ’79, si trasferì in California. Divenne un’eroinomane. Ne uscì nell’86. Tornò a casa, trasfigurata. Sposò Barrow, il figlio di O’Connor. Divenne madre, divenni zio. Tornai con Tara a Begorath, alla casa che fu dei miei genitori e Nina si spostò a Inverness. Ancora oggi ci vediamo e sentiamo regolarmente.

«Psst. Jim! James Bloomfield!», disse qualcuno facendo timidamente capolino dalla finestra.
«Tara!», il cuore prese a battermi forte e mi dimenticai delle legnate e dal casino che avevo combinato.
«Ma è vero che sei stato nella selva, stanotte, da solo?»
«Si.»
«Lo sapevo! Tu si che hai fegato! Non come MacNamara che è buono solo a contar balle. Ho deciso: da oggi siamo fidanzati e tu mi sposerai! Sei d’accordo?»
«Si.»

Sebbene i Ballyon, come vi ho raccontato, fossero uno dei pochi Clan del Loch ad aver mantenuto qualcosa di più del vecchio blasone nobiliare, erano nondimeno invisi alla maggior parte della gente. Forse proprio per questo, per i loro soldi, anche se la motivazione ufficiale voleva essere un tantino più profonda.

1298. Solo un anno prima William Wallace aveva inflitto una sconfitta memorabile agli inglesi nella battaglia di Stirling Bridge. Ma il Plantageneto non era uomo che digerisse bene gli smacchi. Rimise in piedi l’esercito e neanche un anno dopo aveva nuovamente invaso la Scozia, partendo da Roxburgh. Aveva lasciato che i suoi uomini saccheggiassero, distruggessero e stuprassero tutto il Lothian, con l’unico intento di far scendere in campo Wallace, a Falkirk. Ma, a differenza di quanto accaduto un anno prima, Edoardo I aveva un asso nella manica. Sotto suggerimento del cognato francese, Filippo IV detto il Bello, aveva cominciato a comprarsi la fedeltà di diversi capiclan, promettendo loro denaro, il riconoscimento della loro nobiltà ed il mantenimento delle terre anche sotto il dominio inglese. Quest’opera di corruzione, però, era stata eseguita non solo in gran segreto, ma anche in modo mirato: Edoardo aveva corrotto i Clan che, tradizionalmente, fornivano la cavalleria all’esercito scozzese. Fra questi c’erano anche i Ballyon. Il re inglese si era anche comprato quel cane vigliacco di Robert de Bruce che ora cavalcava al suo fianco sotto mentite spoglie, cui molti all’epoca guardavano come legittimo sovrano di Scozia, e lasciò che questa notizia trapelasse alle spie di Wallace.

William Wallace era un uomo istruito, almeno per essere uno scozzese, ed un buon stratega. Aveva elaborato un piano, a sua detta, infallibile, calcolato al millimetro. Dopo la disfatta di Stirling, Edoardo non aveva fatto in tempo a rimpolpare le fila degli arcieri gallesi che quindi non costituivano un problema insormontabile. L’unica sfida era reggere l’assalto della cavalleria pesante. Fatto questo avrebbe attirato la fanteria inglese in un cul de sac, e la cavalleria scozzese, a quel punto, avrebbe aperto le danze. A differenza di un anno prima, Wallace avrebbe portato il suo attacco in profondità, fino ai quartieri del re.

Avrebbe ucciso sia il Plantageneto che il traditore de Bruce per poi siglare una rapida pace col figlio di Edoardo, che portava lo stesso nome, successore al trono inglese: a quel punto nessuno più si sarebbe opposto alla sua incoronazione quale sovrano di Scozia.

Le cose andarono esattamente come Wallace le aveva pianificate.

Fino a un certo punto.

Per essere precisi fino al punto in cui i Ballyon, visto sventolare il drappo che li spronava a scendere in battaglia, fecero dietrofront ed abbandonarono il campo.

Fu il massacro.

Pochi anni dopo, nel 1305, William Wallace fu catturato a Glasgow. Venne portato a Smithfield e lì torturato, impiccato e poi squartato. La testa venne esposta sul London Bridge per diversi mesi, fin quando non si ridusse ad una poltiglia putrescente. Il braccio destro andò a Newcastle, il sinistro a Berwick, le gambe a Perth ed il tronco ad Edimburgo.

Da quel giorno, nel Loch, Ballyon fa rima con traditore.

E Tara Ballyon era la figlia di Andrew, e la nipote preferita di Somerled.

La famiglia più ricca del Loch.

«Jim, ripeti all’ispettore Hatley quello che mi hai raccontato. E se, per Dio stai mentendo, puoi stare certo che…»
«Papà te lo giuro! Era una ruspa. Sulla collina, vicino alle pietre dei Pitti!»
John Hatley, l’ispettore di Scotland Yard, gettò un’occhiata in tralice a mio padre.
«Le pietre esistono, è vero. Sono cose archeologiche, portate alla luce da poco. Ne ha parlato anche la televisione.»
«E dimmi, ragazzo: sapresti tornare in quel posto?»
Rimasi in silenzio.
«Senti John. Il ragazzo non è un contaballe. E quell’ufficiale americano che me l’ha riportato l’abbiamo visto tutti. Almeno una spiegazione su che cosa ci faceva di notte a Dubhcrainn penso che potrebbe anche darcela, no?»
«Non farti illusioni Sean! Quelli della base sono fuori giurisdizione. Se non vogliono, e non vedo perché dovrebbero volerlo, non ci dicono nulla!»
«E allora rivolgiti ai tuoi superiori. Ci sarà pure qualcuno? Un capo di Londra, un ministro!»
«Uhhh Sean, Sean! Più si sale più ci avviciniamo alla gente che questa maledetta base ce l’ha messa dietro casa. La vedo difficile. Ma se Jimmy riesce a ritrovare il posto, almeno posso andare a dare un’occhiata, sempre che non sia entrato in zona off limits.», stavolta gli occhi dell’ispettore si posarono su di me.
Rimasi in silenzio, ancora una volta.
«Insomma, Jimmy. Saresti in grado di tornare dove hai visto la ruspa si o no?»
«…»
«Ebbene?»
«No.», conclusi amareggiato.
«E allora la faccenda è chiusa. Ruspa o non ruspa, temo che non sapremo mai in che cosa stessero trafficando gli americani.»
«Forse con un elicottero…»
«Sean! Dammi retta: lascia perdere…»

“Come una palla di neve” è un modo di dire di certe cose che cominciano con un niente, senza che nessuno se ne interessi ma che poi, man mano che passa il tempo, si ingigantiscono, vanno ben al di là delle intenzioni o dei calcoli di chiunque, prendono direzioni inaspettate e, infine, si abbattono rovinosamente, non più palle di neve ma slavine.

Un ottimo esempio di ciò a Begorath lo avevamo in Cromwell Maddock, il notaio. Notaio non perché avesse mai esercitato la professione in paese, ma perché, a tutti gli effetti, aveva studiato da notaio ed era regolarmente abilitato all’esercizio delle attività notarili presso l’albo di Glasgow.

Il 7 settembre del 1940 i nazi della Luftwaffe bombardarono Londra. L’obbiettivo ufficiale della missione erano i porti dell’East End, anche se in realtà non risparmiarono case ed altri edifici. Molta gente morì soffocata nei bunker che le bombe e i razzi V1 avevano sigillato come macabre tombe collettive. Una coraggiosa reporter della radio inglese, che disse di chiamarsi Miss Nightingale, raccontò in diretta dell’attacco, con una commovente cronaca dall’alto di un palazzo. Le sue parole, dopo che l’aviazione tedesca si era ritirata, riempirono Maddock di furia patriottica:
«Vedo le case e i palazzi in fiamme. Vedo pozze di fuoco bruciare lungo il Tamigi. Sento le urla e la disperazione dei cittadini. Ma questa è ancora Londra! Questa è ancora la nostra città! Ed il signor Hitler è avvertito: la gente d’Inghilterra vendicherà questo orrore!»

Il giorno dopo, Cromwell Maddock, prese il vecchio schioppo da caccia del padre e si arruolò. Non era uno sciocco, ma un’idealista si. La sua idea di seconda guerra mondiale lo vedeva a Londra, col fucile da caccia, ad impallinare gli aerei del fuhrer uno dopo l’altro, magari con una bella fanfara di cornamuse a suonare sana musica di guerra. Ma nessuno abbatte un aereo con un fucile da caccia.

Fu spedito al fronte, prima in Francia e poi in Germania, e lì coinvolto in una cosa molto, incredibilmente più grande di lui, e tutto a causa di un errore di pronuncia. Venne fatto prigioniero praticamente subito e sarebbe stato fucilato sul posto se un ufficiale nazista, Udo Meier, non avesse ricevuto qualche giorno prima un dispaccio segreto che recava una direttiva apparentemente assurda. In capo a pochi giorni – recava il dispaccio – un piccolo distaccamento inglese sarebbe capitato a tiro degli uomini di Meier. Il tutto faceva parte di un piano concertato fra Rudolf Hess, il delfino di Hitler, e non meglio precisati “ambienti inglesi non ostili al nazionalsocialismo in Europa”, il cui unico scopo era quello di far arrivare a Berlino sotto il naso del SIS, l’efficientissima intelligence inglese, tale Bran Murdock. Gli altri potevano, ed anzi dovevano, essere uccisi senza remore per non lasciare testimonianza alcuna della cospirazione. Un vero peccato che Bran Murdock avesse fatto una fatale passeggiata su una mina antiuomo solo pochi giorni prima, mentre gli inglesi si addentravano nel suolo nemico ed il capo del plotone, il capitano Whyte, malediceva la missione suicida e senza senso che il comando gli aveva affidato. Fu così che quando Udo Meier, nel suo inglese stentatissimo, chiese di tal “Medock, merdock… una cosa del genere…” il buon Cromwell aveva prontamente risposto:
«Sono io, porci nazisti! E non vedo l’ora di farvi vedere come muore uno scozzese!»

In realtà si stava letteralmente pisciando addosso dalla paura. Nulla di strano, quindi, che quando fu condotto nei quartieri di Meier prima, e caricato su un anonimo furgone, direzione Berlino, poi, decise che era meglio stare al gioco. Maddock non era uno sciocco, tutt’altro. Il fatto che fosse stato il primo laureato nella secolare storia di Begorath la diceva lunga sull’intraprendenza dell’uomo. E così, suo malgrado, la notte del 10 maggio del 1941 si ritrovò in un segretissimo volo notturno diretto nel Regno Unito, nientemeno che in compagnia di Hess. Da quello che era riuscito a capire, i nazi credevano che lui fosse l’ambasciatore di un gruppo formato da Lord della Camera e da militari inglesi simpatizzanti del nazismo. Il suo compito era di mettere in contatto Hess con questa gente, al fine di siglare un’improbabile alleanza franco/inglese che avrebbe portato ad un repentino rivolgimento delle sorti della guerra in corso.

Per capire come fosse stato anche solo minimamente possibile che il signor Cromwell Maddock di Begorath, per quanto accorto e scaltro come una maledetta volpe scozzese, fosse riuscito a darla a bere ai cani nazisti è bene rivolgere un orecchio alla discussione che Adolf Hitler ebbe con Rudolf Hess il 2 febbraio del 1941 a Wewelsburg, la fortezza delle SS.
«Perderemo, Rudolf. Se non cade l’Inghilterra perderemo.», il fuhrer aveva pronunziato questa frase col suo abituale distacco.
«Lo vedo con una chiarezza allarmante. Tanto che mi trovo a dubitare delle mie capacità intellettive. Stiamo arando il mondo col sangue ed il fuoco. Non c’è uomo sulla faccia della terra che non tema la svastica. Eppure so, con certezza assoluta so, che se Albione non cade, perderemo.»

Hess non aveva fatto un fiato. Riponeva una fiducia nel fuhrer che non si basava su alcun elemento fattuale. Non perché fosse un capo, non perché fosse un grande generale, non perché fosse l’uomo più determinato, glaciale, ed intelligente che avesse mai conosciuto. Rudolf Hess vedeva in Hitler l’Araldo degli Dèi, l’uomo ispirato dalle potenze iperboree che, dopo secoli di tregua, stavano per riappropriarsi del mondo. Dèi pagani, feroci e crudeli, sui cui altari il nazismo avrebbe forgiato un nuovo mondo. Hitler ne era il profeta. Ed un profeta non sbaglia mai.
«Ci sono degli uomini, in Inghilterra. Uomini che ho conosciuto prima del blitzkrieg. Uomini che capiscono la grandezza della tua visione. Negli inglesi scorre un po’ del sangue dei germani, mio fuhrer. Forse…»
Hitler aveva abbozzato un sorriso di disprezzo.
«Non sarebbe la prima volta che quei cani del SIS ci giocano un tiro magistrale! E se fosse solo un’altra esca? Non posso rischiare di perderti…»
«No. Ne sono certo. Le persone di cui parlo sono affiliate ad alcune società segrete che condividono gli ideali della Thule.»
«Allora contattali. Va da loro. Puoi offrirgli l’amicizia del Reich. Ma non tollererò un fallimento.»
«Ho pensato a tutto, mio fuhrer. Nessuna parola d’ordine. Nessuna visita ufficiale o ufficiosa. Sarò io a recarmi nel regno. Loro manderanno un ambasciatore all’oscuro di tutto, fuorché del fatto che deve portarmi da loro. Una volta sul suolo inglese, per sicurezza, chiederò che venga eliminato. Sarà anche un modo per testare la loro durezza.»

E così, la notte tra sabato 10 maggio e domenica 11 maggio 1941, un anonimo velivolo sorvolava l’Inghilterra, volando il più basso possibile per non farsi scorgere. A bordo c’erano Rudolf Hess, il prediletto di Adolf Hitler, alla guida del mezzo, ed il più improbabile dei compagni di volo: Cromwell Maddock di Begorath.

Ian Welsh, invece, fu il gallese che, uscito di notte a controllare le pecore del recinto che stavano belando spaventate, vide il velivolo avvicinarsi, sfiorando la cima delle colline più basse. Corse in casa. Prese il fucile da caccia del padre, uscì e sparò.

Ian Welsh aveva un’ottima mira. Come tutti i Gallesi.

Hess era davvero un valente pilota e riuscì in un impossibile atterraggio di fortuna, sbattendo la fronte contro la cloche al momento dell’impatto col suolo. Quando si riebbe, il suo ambasciatore se l’era bella che svignata. Da quel giorno Cromwell avrebbe acceso ogni domenica un cero alla Madonna. E avrebbe conservato la scatola di metallo piena di documenti riservati che aveva sottratto ad Hess svenuto, al sicuro nella cassaforte della sua dimora a Begorath.

Insieme alla laurea e all’abilitazione da notaio.

Senza mai farne parola con nessuno fino al 2002, pochi giorni prima della sua morte.

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begorath due.

Corsi. Corsi a perdifiato. Fuori di casa. Oltre in sentiero di ghiaia che portava al cancello di casa. Superato il cancello. Oltre Begorath. Oltre il Loch. Oltre la Scozia…

In realtà quando, sfinito, ruzzolai in terra, non stavo pensando a dove mai fossi giunto. Più che altro cercavo di non soffocare. L’umidità e l’aria fredda mi avevano mozzato il fiato. Era il 21 di luglio, ma il 21 luglio nella Selva di Dubhcrainn faceva freddo.

Mi rialzai guardandomi attorno. Non mi ero mai spinto così lontano nelle mie scorribande, ne ero certo. Come tutti i bambini del Loch, credo come tutti i bambini del mondo, avevo sviluppato, insieme ad i miei amici, una conoscenza pressoché perfetta del nostro piccolo mondo: nessun anfratto, nessun nascondiglio, nessuna scorciatoia ci era sconosciuta. Ma si trattava davvero di un piccolo mondo: il paese di Begorath, niente più che una manciata di case bianche sulle Highlands, sorte intorno ad una vecchia torre diroccata, e le piccole e rade propaggini del Dubhcrainn, tanto minacciose per noi piccoletti, però, che lì ambientavamo ogni sorta di gara di coraggio, gioco spaventoso o scherzo crudele, perlopiù alle femmine. La torre al centro del paese, invece, recava con sé una storia quantomeno curiosa.

Era l’anno del Signore 1034 e Coluim MacCinada, il primo sovrano di Scozia, passò a miglior vita. Per assicurarsi che al potere salisse suo nipote Donchad MacCrinain, aveva infranto la tradizione del tanistry. Il tanistry era una forma di proto democrazia in uso presso i Gaeli. In pratica alla morte di un re o di un condottiero il suo successore veniva scelto per elezione dai tutti i capiclan riuniti, e se questi non riuscivano a mettersi d’accordo, da tutti gli uomini adulti dei Clan. Ma MacCinada aveva fatto uccidere il tanis scelto dal consiglio dei Clan e nessuno se l’era sentita di farsi avanti in sua vece: il buon Coluim non aveva la più pallida idea di cosa fossero la pietà la compassione, e la cosa era ben nota a tutti.

Così ebbe inizio il regno di Donchad I.

Che fu un disastro.

Nel 1040 prese una clamorosa batosta dagli inglesi a Durham. Da bravo scozzese si diede alla fuga, ma a Bothgofnane fu raggiunto e ucciso da MacBethad, il signore di Moray, alleato degli inglesi, che succedette al trono. Nonostante MacBethad sia considerato una sorta di Nerone scozzese, bisogna dire che non era un diavolo poi così cattivo e che la Scozia conobbe con lui un periodo di pace.

Quando però MacBethad affondo la lama del suo kirk nel petto di Donchad, era stato assalito da un dubbio: era forse un sorriso di scherno quello che aveva letto nel volto del re, prima che rendesse l’anima al Signore? E che mai avrebbe voluto dire?
MacBethad lo scoprì diversi anni dopo, quando venne a sapere che Donchad non era morto senza lasciare discendenza. Aveva un figlio, forte e valoroso. Si chiamava Mael Coluim, ed ora che aveva raggiunto l’età adulta voleva indietro il regno che gli spettava di diritto. Se lo riprese nel 1057 quando a capo di una lega di Clan che mal avevano tollerato negli anni l’indole sostanzialmente pacifica di MacBethad, Coluim lo sconfisse, lo uccise e, tanto per chiarire una volta per tutte chi comandava, assunse il nome di Cenn Mor, il Grande Capo.

Tutto ciò ha attinenza con la torre di Begorath in quanto fu proprio in questa torre solitaria delle Highlands che il Grande Capo trascorse, in gran segreto, gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza. Lo sparuto codazzo di guardie fidate, precettori e servi che lo accompagnarono diede vita negli anni al paese.

Da noi si dice che Coluim, ormai praticamente adulto, non disdegnasse di gettarsi in romantiche avventure con le belle ragazze del villaggio e che, conseguentemente, nelle vene della gente di Begorath scorra qualche oncia di sangue reale.

Comunque, così dentro la selva non ci ero mai arrivato. Avevo completamente perso l’orientamento. Non ricordavo neanche da che parte stessi arrivando prima di cadere sfiancato come un cavallo. Continuavo a guardarmi in giro, stranamente calmo data la situazione. Poco avanti mi sembrava di intravedere, nella luce lunare che già non destava più la mia attenzione ammirata, l’ombra d’un sentiero, che però non sapevo dove si dipanasse. Le raccomandazioni di mia madre mi tornarono utili, più o meno.
«Non cacciarti nel bosco, James Malcom Bloomfield. Ma se mai dovesse passarti per la zucca la stupida idea di farlo, e temo che prima o poi accadrà, e dovessi perderti, bada a trovare un sentiero e seguilo in discesa. In discesa, hai capito? Da qualche parte arriverai. Da li chiedi aiuto.»

E così feci. Ma lo imboccai in salita. Pareva condurre dolcemente verso una collinetta incoronata da querce. Non avevo perso il senno, ma decisi che quella era la più grande avventura della mia vita: immaginavo che sarebbe finita con mia madre che me le suonava di santa ragione e proprio per quello volevo assaporarne il più possibile.

Rimasi in silenzio.

E lo udì.

Il fragore delle acque del Loch…

Così lontano mi ero spinto da giungere sino al promontorio del Drumnadrochit? Non potevo crederlo… avrei dovuto aver corso per miglia… impossibile… e poi era ancora buio… d’estate faceva giorno in un istante.

No. Non erano le acque del Loch. E il sentiero conduceva proprio nella direzione che volevo raggiungere, così mi incamminai.

Poco più di un mese prima, verso la fine della scuola, era venuto un professore dell’università da Edimburgo, originario di Milton e molto, ma molto amico della maestra, la signorina Alpine, a farci una lezione sugli antichi popoli della Scozia. C’erano gli Scoti, giunti dall’Irlanda al seguito di Re Fergus. C’erano i Britanni, più a sud, e da queste parti c’erano i Pitti. Il poco che si sa dei Pitti l’hanno narrato gli storici ed i generali romani che conquistarono la nostra terra più o meno all’epoca che vide le gesta di Gesù di Nazareth.

E tutti, indistintamente, ne parlano molto male.

Negli anni dell’università a Londra, mentre mi laureavo in letteratura, ebbi modo di dare qualche esame di storia. In particolare ricordo il mio esame di storia antica. Il professor Newcomb, che si professava apertamente marxista e filosovietico, dando non poche rogne al rettore, cominciava ogni anno accademico con la stessa frase:
«Eccovi qui, signori! Siete venuti per apprendere della buona, cara, vecchia storia antica di questa nobile isola. La prima lezione che dovete imprimere nelle vostre menti è la seguente: la storia la scrivono i vincitori!»

Nulla di strano, dunque, se tutti i resoconti dei Pitti non facessero altro che dire e ridire della loro ferocia, della loro crudeltà assoluta, dei loro sacrifici umani, del loro essere più bestie che uomini. Ma io non ero d’accordo. Non lo ritenevo possibile. Neanche una voce stonata, neanche un accenno, un nonnulla a qualcosa di più sui Pitti che non puzzasse necessariamente di cadavere. C’era solo una spiegazione plausibile: con ogni probabilità i Pitti erano veramente un popolo di bestie crudeli e selvagge, che indossavano pelli di animali e amavano più d’ogni altra cosa veder scorrere il sangue. Possibilmente a fiumi. Possibilmente quello degli altri.

E noi di Begorath, noi del Loch, ne eravamo, in qualche misura, i discendenti.
Tuttavia ciò che non raccontarono i romani, ci disse il professore di Milton, ce lo stavano raccontando, proprio in quei giorni, le pietre. Infatti, in seguito a dei lavori per l’ampliamento della tratta ferroviaria sino al Loch, città candidate Lochend e la stessa Milton, che poi avrebbe vinto ed avuto la sua stazione ferroviaria, erano state riportate alla luce delle antiche pietre scolpite, certamente risalenti ai Pitti. In seguito alla scoperta il governo diede inizio ad una campagna di scavi nei dintorni, un cantiere dei quali era stato aperto in un luogo della Selva di Dubhcrainn non particolarmente distante da Begorath. La parola “cantiere” mi colpì: mi immaginavo degli operai edili, come mio padre, che scavavano alacremente con le ruspe alla ricerca di tesori sepolti, ma scacciai quell’immagine dalla mente: mi parve subito troppo prosaica. Il professore di Milton avrebbe dovuto accompagnarci agli scavi il giorno dopo, ma dovette tornare in fretta e furia a Londra, per motivi che nessuno sa con certezza. Qualche malelingua andava dicendo che l’improvvisa partenza dello stimato professore avrebbe avuto a che fare con la passione di Alan Alpine, il padre della signorina Alpine, per la caccia, i fucili e l’onore di sua figlia. Gli scavi si interruppero quel giorno per non essere mai più ripresi, il professore di Milton non si fece più rivedere. Io rimasi con il desiderio inespresso di poter toccare queste antiche pietre. Allora non era vero che i Pitti non facevano altro che andare in guerra ed uccidere tutto ciò che gli capitasse a tiro! Avevano anche altri interessi nella vita.

Ed io dovevo soddisfare la mia curiosità.

Oramai ero in ballo.

Il sentiero avrei sempre potuto percorrerlo in discesa dopo. Dopo, si. Perché nella fredda luce lunare avevo intravisto un riflesso tra le querce sulla collina. E sapevo anche di che cosa si trattasse, per averne avuto esperienza mille volte quando andavo a trovare mio padre a lavoro appena uscito da scuola. Era un pezzo di nastro catarifrangente giallo, di quelli che si usano per delimitare gli incidenti d’auto, le frane ai bordi delle strade… o i cantieri.

L’alba mi colse che ero quasi arrivato in cima. Non avevo assolutamente calcolato le distanze. La collina sembrava molto più vicina. Appena vidi il sole rabbrividii. In un istante mi colpì la piena consapevolezza di ciò che avevo fatto, di ciò che stavo facendo.

Ero scappato.

Di notte.

Ero andato nel bosco.

Mi ero perso.

E non stavo cercando di tornare a casa.

Giunsi in cima e risolsi subito il primo mistero: il fragore d’acqua. Già quando l’avevo udito la prima volta, un’ora prima, mi ero scoperto a pensare che il rumore dell’acqua sulla scogliera assomigliasse, da lontano, al ruggito sommesso che faceva l’escavatrice che ogni tanto mio padre adoperava a lavoro. Non era somiglianza, era identità, come avrebbe rimarcato con orgoglio il mio docente di filosofia al liceo, il Signor Strand. Era infatti una escavatrice. Ferma, ma col motore accesso che rombava spargendo un odore di nafta che la rendeva ancora più aliena rispetto al posto in cui si trovava. Ripensai all’idea che mi ero fatto a scuola dei cantieri archeologici: proprio come i cantieri dove lavorava mio padre, alla fine!

In piedi, accanto alla macchina, c’era un uomo, un soldato in divisa. Sulla divisa, sulla ruspa e persino sul nastro catarifrangente giallo c’era la medesima scritta: NATO. Nonostante avessi solo sei anni sapevo cosa fosse la NATO: guai.

Nel 1959, giunse l’esercito al Loch. Avevano l’ordine di recintare una porzione non piccola di boschi per farne un campo d’addestramento speciale per gli incursori della marina. Si rivelò una mezza bufala, per fortuna. Nel senso che i militari recintarono l’area e proibirono severamente l’acceso a chiunque non fosse autorizzato, ma di operazioni militari all’interno, per un po’ di anni, non se ne ebbe nemmeno il sentore. Tant’è che la gente del Loch, specialmente i cacciatori, pian piano rimossero porzioni sempre più ampie della recinzione, tornando così ad appropriarsi del loro bosco.

Poi, nel ’63, l’anno in cui nacqui, il campo d’addestramento fu messo a disposizione della NATO. In pochi anni si riempì di americani che, a valle, a neanche dieci miglia da Begorath, edificarono una vera e propria base.

Non fu una scelta felice. La gente del Loch e delle Highlands reagì molto male. Già non amavano i pochissimi turisti che allora giungevano dalle nostri parti. Dopo tre generazioni i nipoti degli immigrati dall’Inghilterra o dall’Irlanda ancora venivano chiamati “gli stranieri”. Alla presenza dei militari quelli del Loch se la presero a male, sul personale direi. Da subito fu chiaro che gli americani non potevano azzardarsi a mettere il naso fuori dalla loro base del cazzo. A Braefild, Jack, uno dei ragazzi di Murray, si beccò sette anni di carcere per aver accoltellato un soldato in libera uscita che aveva osato appena posare lo sguardo sulla sorella. Un gruppo di contestatori provenienti da tutto il regno aveva bivaccato nei pressi del campo per settimane, lanciando insulti e uova marce a chiunque ne entrasse o ne uscisse. Quando finirono le uova cominciarono coi sassi. A quel punto intervenne la polizia. Il casino che ne seguì convinse tutti che sarebbe stato meglio se la gente del Loch avesse ignorato gli americani e se gli americani non avessero messo mai più piede nei paesi del Loch. Se ne potevano andare a Inverness a spadroneggiare con la loro arroganza transatlantica!

La loro presenza nel cuore di Dubcrainn era, quindi, ancora più strana e sorprendente delle pietre incise tra le quali, me ne accorsi solo in quel momento, mi stavo muovendo.

Si trattava di pietre alte, ma non altissime. Anzi parecchio più basse delle pietre di Stonhenge che avevo visto alla BBC. Comunque più alte di me. Erano scolpite in profondità, ma i solchi erano ricoperti da ciuffi di muschio bruno e da incrostazioni di terra. Solo allontanandosi di qualche passo era possibile coglierne il disegno nella sua interezza, ricostruendo con la fantasia e l’intuito i tratti cancellati dal tempo. In particolare quella che stavo osservando recava un disegno spiraliforme, circolare, complesso. Nell’intreccio delle linee curve intravedevo a tratti sembianze di animali, alberi, mostri…
«Ehi! Ragazzino! Che ci fai qua!?», la voce era alle mie spalle e mi sentì sfiorare la testa da una mano gentile.
«Sta tranquillo! Non voglio farti del male. Sono un militare, vedi?», mi disse accennando a mostrarmi i gradi, come se potessero per me significare qualcosa, qualcosa di rassicurante.
«Che ci fai qui solo a quest’ora? Allora dove è tua madre? Lo sa che sei qui? Scommetto che in questo momento ti sta cercando ed è mezza morta di paura.»
L’immagine di mia madre addolorata mi restituì la prontezza di spirito. E risposi come mi era stato insegnato.
«Fatti gli affari tuoi, americano! Mia madre scoppia di salute. E quando mio padre saprà che mi hai spaventato ti farà sputare i denti a calci!»
Ma forse ero stato un po’ troppo spaccone. Solo. Nessuno sapeva dove fossi. Forse avevano già cominciato a cercarmi, ma chissà quanto tempo ci avrebbero messo a trovarmi.
Intanto l’uomo mi guardava divertito.
«Allora credo che ti manderò il conto del mio dentista. Perché adesso tu mi dici dove sta casa tua ed io ti ci riporto. Senza storie. Marsch!»
Sono sempre rimasto in contatto, negli anni, col maggiore Stevens che, ripensandoci, quel giorno mi tirò fuori proprio da un brutto pasticcio. Ci siamo scritti. Per tanti anni, a Natale, mi ha spedito ora un cappellino della NASA, ora una carta stellare, nel ’72 addirittura un modellino dell’Apollo 11. Poi ci siamo rincontrati nel 1989 a Berlino, ed è stato bellissimo! E poi ci siamo ancora scritti per e-mail fino a che non se ne è andato, nel ’94, dopo una vita lunga e piena di soddisfazioni. Ma quella mattinata del 21 luglio quando mi riportò a casa, sotto gli occhi furenti dell’intera Begorath che nel frattempo si era mobilitata per le ricerche, lo odiai con tutte le mie forze. Lo odiai perché aveva scritto un finale infantile per la mia avventura coraggiosa. Lo odiai perché mio padre, costretto a ringraziare con riconoscenza un americano, andò in bestia e mi diede uno schiaffo. Lo odiai perché mia madre me ne dette molti di più una volta a casa, Nina non fiatò neanche, e perché dovetti sorbirmi il suo sguardo di fredda riprovazione per quasi un mese intero. Ma più di ogni altra co-sa lo odiai perché ero diventato lo zimbello dei miei amici.

E fu proprio per rimediare a quella insostenibile perdita di status che, di lì a poco, mi sarei cacciato in un guaio ancora più grosso.

E poi, quella ruspa…

Non stava riportando alla luce una specie di… fontana?

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begorath uno.

Mi chiamo Jim Bloomfield. Da bambino volevo fare l’astronauta.

E quella che sto per raccontarvi è una storia vera.

Era il 20 luglio del 1969, il giorno dello sbarco sulla Luna, e io avevo sei anni.
Non era la prima volta che mi alzavo prima dell’alba. Ogni volta che accompagnavo mia madre a Edimburgo per la sua visita di controllo bimestrale dal dottor Shyles, ci alzavamo prestissimo. La corriera che portava a Inverness partiva alle 06:00 spaccate, e da lì avremmo preso il treno per la bella Edimburgo, la città di Conan Doyle, che divenne nell’adolescenza uno dei miei autori favoriti. Mia madre mi svegliava nel cuore della notte sempre con la stessa frase, la stessa fino al 18 gennaio del ’86, quando morì e io già mi ero trasferito a Inverness, dopo il matrimonio e la laurea presa a Londra, e continuavo ad accompagnarla:
«Jim, tesoro. Dobbiamo andare.»
Al che io puntualmente rispondevo, fino al fatidico 18 gennaio:
«Si, mamma.»

Comunque sia, alle ore 04:56, ora di Begorath, Scozia (ore 22:56 di Houston, Texas, quindi da noi era già il 21) Neil Armstrong mise piede sulla luna e si fece la passeggiata più famosa della storia del mondo.

Questo è il ricordo più nitido che abbia della mia infanzia: non appena il vecchio Neil mise piede sul suolo bianco sporco, io mi precipitai alla finestra per osservare la Luna, protendendo così fortemente lo sguardo oltre lo spazio infinito fin verso gli astri, che per poco non mi uscirono gli occhi dalle orbite. Ricordo, persino nel lasso di tempo che trascorse tra il mio affacciarmi così teso verso il cielo ed il riceverlo, lo scappellotto bonario di mio padre che seguì. Era il suo modo di fare, di insegnare, di essere padre: una versione addolcita delle bastonate che nonno Angus gli rifilò a suo tempo per insegnarli la buona creanza e mettergli un po’ di sale in zucca, come era usanza tra quel popolo di pesci in barile che sono le comunità che sorgono nei pressi del Loch, il Lago. Ricordo pochissime sgridate da parte sua ed un solo suo schiaffo, che mi avrebbe dato di lì a poche ore. Per il resto solo una lunga, lunghissima, direi interminabile sequenza di scappellotti bonari che si accompagnavano regolarmente ad ogni lezione di vita.
«Papà! MacNamara dice che Babbo Natale non esiste!»
Scappellotto bonario.
«Santo Dio, Jim! Cosa aspetti a suonargliele!»
Oppure:
«Sai pà? Troy O’Connor, l’irlandese. È tornato dalla fiera di Beaufort Castle in sella ad un Clysdel che ha vinto alla riffa dei Bal…»
Scappellotto bonario.
«Idiota! Quante volte ti ho detto che quel pezzente irlandese non lo devi neanche nominare in questa casa?! E poi si dice Clydesdale, hai capito? Clydesdale.»
Ma anche:
«Papà. Ho chiesto a Tara Ballyon di sposarmi!»

Si fece serio. Non pretendevo certo che mi rispondesse, però…
«Hai 18 anni Jim! Non fare la mia fine! Dammi retta: guardati un po’ in giro. Dagli un’occhiata a questo mondo… Fai felice me e tua madre. È l’ultima cosa che da padre ti chiedo, perché oramai sei adulto… Và all’università. Va a Londra. Almeno provaci. Io non ho mai avuto modo di uscire da questo buco del culo del mondo, e l’Onnipotente mi è testimone che lo avrei voluto, con tutte le mie forze! Sono l’unica persona a Begorath che vede di buon occhio il turismo… La realtà è che vedere ogni tanto gente nuova ci vuole, altrimenti rischi di diventare scemo e di scordarti che esiste un mondo oltre questo paese, oltre il Loch, oltre questa stramaledetta Scozia! Ti ricordi quel giorno… quando Bill Armstrong…»
«Neil, pà… si chiamava Neil.»
«Neil, Bill… che differenza fa? Ti ricordi? Ti ricordi che corresti alla finestra per vedere gli astronauti? Eri così ingenuo…»
«Si. Non ero granché sveglio, per un Bloomfield di sei anni… Dalle Highlands non si distingue un uomo a più di un miglio… ed io pensavo di vedere fin sopra la Luna…»

Mio padre sorrise debolmente e mi fece un cenno con il mignolo destro. Non ne faceva da settimane. I dottori avevano detto che il Parkinson era all’ultimo stadio degenerativo, che non si sarebbe più mosso, che avrebbe a malapena cercato di biascicare qualche parola, che dovevamo stargli vicino perché di lì a poco non sarebbe “più stato in grado di comunicarci i suoi bisogni”. Poi disse:
«Non hai capito Jim. La Luna… la Luna, capisci? Non potevi vederla…»
«Si, pà. Non potevo.»
«No… Era… era dall’altro lato della casa! Dovevi andare alla finestra della tua camera per vederla!»

Il suo ultimo scappellotto bonario. Il giorno dopo se ne andò, lasciando mia madre nella disperazione. Partii per Londra, per laurearmi. Con mia moglie. Dopo essermi sposato.

Ma dobbiamo tornare un attimo a quel giorno di luglio.

Quello scappellotto mi aveva colto impreparato. Indispettito. Offeso. Non ero sciocco! Non pretendevo certo di vedere gli astronauti da casa. Io… volevo partecipare. Volevo guardare coi miei occhi la stessa Luna su cui stava camminando Neil. Ciò che ricordo con maggior nitore è che la delusione che provai quando in cielo non vidi la Luna mi precipitò in un istante nel vuoto e nello smarrimento profondo: era la prima volta, nei miei sei anni di vita, che provavo un’emozione così vivida. Poi arrivo il buffetto gentile di mio padre.

Esplosi.

E corsi via piangendo.

Ogni tanto capitava, quando mia madre me ne dava un paio di quelle buone dopo che ne avevo combinata una delle mie. Correvo in stanza a piangere. A volte, se ero particolarmente fortunato, ci trovavo mia sorella, che immancabilmente mi consolava e diceva:
«Mamma! Non essere così severa con Jimmy!»
«O impara adesso o non impara più! Mi ammazzo di fatica per tenere in ordine la casa, mentre vostro padre è fuori per lavoro. Il mio lavoro va rispettato come quello di Sean! Solo perché non è pagato non vuol dire che non sia lavoro! E tu, Nina, che gli anni di Jim non li hai più da un pezzo, dovresti capirlo più di chiunque altro in questa casa, e darmi una mano! E invece no! Per Dio! Passi le tue ore ad ascoltare quella… quella… non so neanche come definire il ciarpame che ascolti sul tuo giracoso e a leggere quelle riviste di capelloni che ti fai arrivare da Londra! E non so neanche perché tuo padre continui a pagartele senza dire una parola. Anzi… lo sai che ti dico Nina? Che ieri ho beccato tuo padre che le stava sfogliando divertito. Capisci? Divertito! Stamattina mentre usciva lo sai che stava fischiettando? Quella roba là… quella cosa che abbiamo visto alla tele ieri sera… da Londra… Con i Roland Stones che dicevano “Lascia che sanguini!” O Vergine Maria!»
Già perché a dispetto di ogni probabilità, la famiglia di Sean Bloomfield era l’unica, orgogliosa, proprietaria in tutta Begorath di un apparecchio televisivo, fin dal 1968, quando il signor Bloomfield lo vinse alla riffa annuale della fiera di Beaufort Castle. E il bello è che mio padre non ne fu, all’epoca, granché contento, perché aveva acquistato un bel mucchio di biglietti interessato al secondo premio: lo stallone Clydesdale dei Ballyon. Non c’era altro modo, per le scarse finanze della gente del Loch, di procurarsi una di quelle bestie eccezionali, la cui fama era giunta fino a Londra, tant’è che la principessa Margaret in persona un giorno giunse nella tenuta dei Ballyon per acquistarne uno. Il superbo stallone Clydesdale dei Ballyon era sempre stato il primo premio. Quell’anno, vedersi spodestato da una scatola di latta si dice sia stata la cagione del crepacuore di Somerled, il patriarca del vecchio Clan che, trascorsi gli antichi fasti della nobiltà terriera, aveva trovato nuovo prestigio nell’allevamento di qualità.

Tuttavia quando, pochi anni dopo fu l’odiato irlandese Troy O’Connor, il suo nemico personale, a vincere la bestia, mio padre non se ne ebbe poi troppo a male. La televisione, infatti, gli aveva aperto le porte di un mondo incredibilmente vasto ed inesplorato. Tutto per i suoi occhi. Fu subito dopo che “il mostro” entrò in casa Bloomfield, “mostro” lo chiamava la vecchia Sineadh, la cui rimbambitaggine oramai nessuno più a Begorath scambiava per “saggezza dei vecchi”, che mio padre prese a professare in paese eretiche teorie sui benefici del turismo e sull’importanza che il Begorath si aprisse ad una comunità più vasta di visitatori.
«Oltre il Loch! Oltre la Scozia!», diceva con enfasi in piazza ai suoi amici.

Si era perfino candidato sindaco con questo programma. Prese dodici miseri voti, compreso il suo e quello di sua moglie Mairi, ma non quello di sua figlia Nina, che aveva votato per il comunista Lanegan, quattro voti, quello di sua moglie Zenda escluso perché lei “non credeva nel sistema della democrazia rappresentativa”… questi immigrati inglesi! Nessuno, tra l’altro, sapeva di chi mai fossero stati il terzo ed il quarto voto. Si scoprì molti anni dopo, quando Argyle MacArthur confessò a Padre Kenneth sul letto di morte di essersi sbagliato a votare quel giorno, di non aver mai avuto il coraggio di confessarlo e che per questo temeva per la sua anima immortale. Padre Kenneth, che era stato altrettanto segretamente il latore del quarto voto, gli rispose che, poteva starne più che certo, Dio non bada a queste cose…
Quello si che fu un brutto colpo per il mio vecchio. Il Parkinson cominciò a manifestarsi neanche un anno dopo.

Sia quel che sia, quella maledetta notte di luglio, mentre Neil saltellava con gli Dèi, mio padre maturava la definitiva decisione di candidarsi Sindaco e nessuno di noi pensava a quanta cazzo di gente stesse morendo già da qualche anno di questa o quell’altra strana malattia a Begorath e dintorni, io non corsi in camera a piangere.

Corsi fuori casa.

Solo che non se ne accorse nessuno.

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