mercoledì 29 aprile 2009

begorath tre.

Nel fardello di esperienze di ciascuno di noi c’è il ricordo del giorno più importante della sua vita. Non è una cosa data una volta per tutte. C’è il giorno del diploma, che poi diventa la prima esperienza sessuale, che poi diventa il giorno della laurea, che poi diventa il matrimonio, che poi diventa quando nasce tuo figlio, che poi diventa quando si laurea.

Per me non è stato così.

Ancora oggi, che certamente i giorni che mi restano da trascorrere sono meno di quelli che ho sinora vissuto, il giorno più importante della mia vita continua ad essere il 21 luglio 1969.

Mia madre c’era andata giù pesante. Il volto e le chiappe mi dolevano anche più del mio orgoglio scozzese. Con la testa sotto il cuscino, sentivo mio padre in salotto ululare come un lupo, mentre mia madre, strillando sottovoce, diceva:
«Ora basta, Sean Bloomfield! Vuoi che tutta Begorath ti creda pazzo?»
«Almeno avranno qualcosa di cui sparlare che non siano le solite storielle di corna, di bestiame o delle presunte amanti di Padre Kenneth!», ruggì mio padre.
Nina ogni tanto si affacciava in camera mia e sussurrava scuotendo la testa:
«Stavolta l’hai fatta grossa, Jimmy!»

Anni dopo mi maledisse di quel giorno, perché fu il giorno in cui prese la decisione definitiva di andarsene di casa, a Londra. Dove trovò lavoro come hostess per la British Airways. Dal lì, nel ’79, si trasferì in California. Divenne un’eroinomane. Ne uscì nell’86. Tornò a casa, trasfigurata. Sposò Barrow, il figlio di O’Connor. Divenne madre, divenni zio. Tornai con Tara a Begorath, alla casa che fu dei miei genitori e Nina si spostò a Inverness. Ancora oggi ci vediamo e sentiamo regolarmente.

«Psst. Jim! James Bloomfield!», disse qualcuno facendo timidamente capolino dalla finestra.
«Tara!», il cuore prese a battermi forte e mi dimenticai delle legnate e dal casino che avevo combinato.
«Ma è vero che sei stato nella selva, stanotte, da solo?»
«Si.»
«Lo sapevo! Tu si che hai fegato! Non come MacNamara che è buono solo a contar balle. Ho deciso: da oggi siamo fidanzati e tu mi sposerai! Sei d’accordo?»
«Si.»

Sebbene i Ballyon, come vi ho raccontato, fossero uno dei pochi Clan del Loch ad aver mantenuto qualcosa di più del vecchio blasone nobiliare, erano nondimeno invisi alla maggior parte della gente. Forse proprio per questo, per i loro soldi, anche se la motivazione ufficiale voleva essere un tantino più profonda.

1298. Solo un anno prima William Wallace aveva inflitto una sconfitta memorabile agli inglesi nella battaglia di Stirling Bridge. Ma il Plantageneto non era uomo che digerisse bene gli smacchi. Rimise in piedi l’esercito e neanche un anno dopo aveva nuovamente invaso la Scozia, partendo da Roxburgh. Aveva lasciato che i suoi uomini saccheggiassero, distruggessero e stuprassero tutto il Lothian, con l’unico intento di far scendere in campo Wallace, a Falkirk. Ma, a differenza di quanto accaduto un anno prima, Edoardo I aveva un asso nella manica. Sotto suggerimento del cognato francese, Filippo IV detto il Bello, aveva cominciato a comprarsi la fedeltà di diversi capiclan, promettendo loro denaro, il riconoscimento della loro nobiltà ed il mantenimento delle terre anche sotto il dominio inglese. Quest’opera di corruzione, però, era stata eseguita non solo in gran segreto, ma anche in modo mirato: Edoardo aveva corrotto i Clan che, tradizionalmente, fornivano la cavalleria all’esercito scozzese. Fra questi c’erano anche i Ballyon. Il re inglese si era anche comprato quel cane vigliacco di Robert de Bruce che ora cavalcava al suo fianco sotto mentite spoglie, cui molti all’epoca guardavano come legittimo sovrano di Scozia, e lasciò che questa notizia trapelasse alle spie di Wallace.

William Wallace era un uomo istruito, almeno per essere uno scozzese, ed un buon stratega. Aveva elaborato un piano, a sua detta, infallibile, calcolato al millimetro. Dopo la disfatta di Stirling, Edoardo non aveva fatto in tempo a rimpolpare le fila degli arcieri gallesi che quindi non costituivano un problema insormontabile. L’unica sfida era reggere l’assalto della cavalleria pesante. Fatto questo avrebbe attirato la fanteria inglese in un cul de sac, e la cavalleria scozzese, a quel punto, avrebbe aperto le danze. A differenza di un anno prima, Wallace avrebbe portato il suo attacco in profondità, fino ai quartieri del re.

Avrebbe ucciso sia il Plantageneto che il traditore de Bruce per poi siglare una rapida pace col figlio di Edoardo, che portava lo stesso nome, successore al trono inglese: a quel punto nessuno più si sarebbe opposto alla sua incoronazione quale sovrano di Scozia.

Le cose andarono esattamente come Wallace le aveva pianificate.

Fino a un certo punto.

Per essere precisi fino al punto in cui i Ballyon, visto sventolare il drappo che li spronava a scendere in battaglia, fecero dietrofront ed abbandonarono il campo.

Fu il massacro.

Pochi anni dopo, nel 1305, William Wallace fu catturato a Glasgow. Venne portato a Smithfield e lì torturato, impiccato e poi squartato. La testa venne esposta sul London Bridge per diversi mesi, fin quando non si ridusse ad una poltiglia putrescente. Il braccio destro andò a Newcastle, il sinistro a Berwick, le gambe a Perth ed il tronco ad Edimburgo.

Da quel giorno, nel Loch, Ballyon fa rima con traditore.

E Tara Ballyon era la figlia di Andrew, e la nipote preferita di Somerled.

La famiglia più ricca del Loch.

«Jim, ripeti all’ispettore Hatley quello che mi hai raccontato. E se, per Dio stai mentendo, puoi stare certo che…»
«Papà te lo giuro! Era una ruspa. Sulla collina, vicino alle pietre dei Pitti!»
John Hatley, l’ispettore di Scotland Yard, gettò un’occhiata in tralice a mio padre.
«Le pietre esistono, è vero. Sono cose archeologiche, portate alla luce da poco. Ne ha parlato anche la televisione.»
«E dimmi, ragazzo: sapresti tornare in quel posto?»
Rimasi in silenzio.
«Senti John. Il ragazzo non è un contaballe. E quell’ufficiale americano che me l’ha riportato l’abbiamo visto tutti. Almeno una spiegazione su che cosa ci faceva di notte a Dubhcrainn penso che potrebbe anche darcela, no?»
«Non farti illusioni Sean! Quelli della base sono fuori giurisdizione. Se non vogliono, e non vedo perché dovrebbero volerlo, non ci dicono nulla!»
«E allora rivolgiti ai tuoi superiori. Ci sarà pure qualcuno? Un capo di Londra, un ministro!»
«Uhhh Sean, Sean! Più si sale più ci avviciniamo alla gente che questa maledetta base ce l’ha messa dietro casa. La vedo difficile. Ma se Jimmy riesce a ritrovare il posto, almeno posso andare a dare un’occhiata, sempre che non sia entrato in zona off limits.», stavolta gli occhi dell’ispettore si posarono su di me.
Rimasi in silenzio, ancora una volta.
«Insomma, Jimmy. Saresti in grado di tornare dove hai visto la ruspa si o no?»
«…»
«Ebbene?»
«No.», conclusi amareggiato.
«E allora la faccenda è chiusa. Ruspa o non ruspa, temo che non sapremo mai in che cosa stessero trafficando gli americani.»
«Forse con un elicottero…»
«Sean! Dammi retta: lascia perdere…»

“Come una palla di neve” è un modo di dire di certe cose che cominciano con un niente, senza che nessuno se ne interessi ma che poi, man mano che passa il tempo, si ingigantiscono, vanno ben al di là delle intenzioni o dei calcoli di chiunque, prendono direzioni inaspettate e, infine, si abbattono rovinosamente, non più palle di neve ma slavine.

Un ottimo esempio di ciò a Begorath lo avevamo in Cromwell Maddock, il notaio. Notaio non perché avesse mai esercitato la professione in paese, ma perché, a tutti gli effetti, aveva studiato da notaio ed era regolarmente abilitato all’esercizio delle attività notarili presso l’albo di Glasgow.

Il 7 settembre del 1940 i nazi della Luftwaffe bombardarono Londra. L’obbiettivo ufficiale della missione erano i porti dell’East End, anche se in realtà non risparmiarono case ed altri edifici. Molta gente morì soffocata nei bunker che le bombe e i razzi V1 avevano sigillato come macabre tombe collettive. Una coraggiosa reporter della radio inglese, che disse di chiamarsi Miss Nightingale, raccontò in diretta dell’attacco, con una commovente cronaca dall’alto di un palazzo. Le sue parole, dopo che l’aviazione tedesca si era ritirata, riempirono Maddock di furia patriottica:
«Vedo le case e i palazzi in fiamme. Vedo pozze di fuoco bruciare lungo il Tamigi. Sento le urla e la disperazione dei cittadini. Ma questa è ancora Londra! Questa è ancora la nostra città! Ed il signor Hitler è avvertito: la gente d’Inghilterra vendicherà questo orrore!»

Il giorno dopo, Cromwell Maddock, prese il vecchio schioppo da caccia del padre e si arruolò. Non era uno sciocco, ma un’idealista si. La sua idea di seconda guerra mondiale lo vedeva a Londra, col fucile da caccia, ad impallinare gli aerei del fuhrer uno dopo l’altro, magari con una bella fanfara di cornamuse a suonare sana musica di guerra. Ma nessuno abbatte un aereo con un fucile da caccia.

Fu spedito al fronte, prima in Francia e poi in Germania, e lì coinvolto in una cosa molto, incredibilmente più grande di lui, e tutto a causa di un errore di pronuncia. Venne fatto prigioniero praticamente subito e sarebbe stato fucilato sul posto se un ufficiale nazista, Udo Meier, non avesse ricevuto qualche giorno prima un dispaccio segreto che recava una direttiva apparentemente assurda. In capo a pochi giorni – recava il dispaccio – un piccolo distaccamento inglese sarebbe capitato a tiro degli uomini di Meier. Il tutto faceva parte di un piano concertato fra Rudolf Hess, il delfino di Hitler, e non meglio precisati “ambienti inglesi non ostili al nazionalsocialismo in Europa”, il cui unico scopo era quello di far arrivare a Berlino sotto il naso del SIS, l’efficientissima intelligence inglese, tale Bran Murdock. Gli altri potevano, ed anzi dovevano, essere uccisi senza remore per non lasciare testimonianza alcuna della cospirazione. Un vero peccato che Bran Murdock avesse fatto una fatale passeggiata su una mina antiuomo solo pochi giorni prima, mentre gli inglesi si addentravano nel suolo nemico ed il capo del plotone, il capitano Whyte, malediceva la missione suicida e senza senso che il comando gli aveva affidato. Fu così che quando Udo Meier, nel suo inglese stentatissimo, chiese di tal “Medock, merdock… una cosa del genere…” il buon Cromwell aveva prontamente risposto:
«Sono io, porci nazisti! E non vedo l’ora di farvi vedere come muore uno scozzese!»

In realtà si stava letteralmente pisciando addosso dalla paura. Nulla di strano, quindi, che quando fu condotto nei quartieri di Meier prima, e caricato su un anonimo furgone, direzione Berlino, poi, decise che era meglio stare al gioco. Maddock non era uno sciocco, tutt’altro. Il fatto che fosse stato il primo laureato nella secolare storia di Begorath la diceva lunga sull’intraprendenza dell’uomo. E così, suo malgrado, la notte del 10 maggio del 1941 si ritrovò in un segretissimo volo notturno diretto nel Regno Unito, nientemeno che in compagnia di Hess. Da quello che era riuscito a capire, i nazi credevano che lui fosse l’ambasciatore di un gruppo formato da Lord della Camera e da militari inglesi simpatizzanti del nazismo. Il suo compito era di mettere in contatto Hess con questa gente, al fine di siglare un’improbabile alleanza franco/inglese che avrebbe portato ad un repentino rivolgimento delle sorti della guerra in corso.

Per capire come fosse stato anche solo minimamente possibile che il signor Cromwell Maddock di Begorath, per quanto accorto e scaltro come una maledetta volpe scozzese, fosse riuscito a darla a bere ai cani nazisti è bene rivolgere un orecchio alla discussione che Adolf Hitler ebbe con Rudolf Hess il 2 febbraio del 1941 a Wewelsburg, la fortezza delle SS.
«Perderemo, Rudolf. Se non cade l’Inghilterra perderemo.», il fuhrer aveva pronunziato questa frase col suo abituale distacco.
«Lo vedo con una chiarezza allarmante. Tanto che mi trovo a dubitare delle mie capacità intellettive. Stiamo arando il mondo col sangue ed il fuoco. Non c’è uomo sulla faccia della terra che non tema la svastica. Eppure so, con certezza assoluta so, che se Albione non cade, perderemo.»

Hess non aveva fatto un fiato. Riponeva una fiducia nel fuhrer che non si basava su alcun elemento fattuale. Non perché fosse un capo, non perché fosse un grande generale, non perché fosse l’uomo più determinato, glaciale, ed intelligente che avesse mai conosciuto. Rudolf Hess vedeva in Hitler l’Araldo degli Dèi, l’uomo ispirato dalle potenze iperboree che, dopo secoli di tregua, stavano per riappropriarsi del mondo. Dèi pagani, feroci e crudeli, sui cui altari il nazismo avrebbe forgiato un nuovo mondo. Hitler ne era il profeta. Ed un profeta non sbaglia mai.
«Ci sono degli uomini, in Inghilterra. Uomini che ho conosciuto prima del blitzkrieg. Uomini che capiscono la grandezza della tua visione. Negli inglesi scorre un po’ del sangue dei germani, mio fuhrer. Forse…»
Hitler aveva abbozzato un sorriso di disprezzo.
«Non sarebbe la prima volta che quei cani del SIS ci giocano un tiro magistrale! E se fosse solo un’altra esca? Non posso rischiare di perderti…»
«No. Ne sono certo. Le persone di cui parlo sono affiliate ad alcune società segrete che condividono gli ideali della Thule.»
«Allora contattali. Va da loro. Puoi offrirgli l’amicizia del Reich. Ma non tollererò un fallimento.»
«Ho pensato a tutto, mio fuhrer. Nessuna parola d’ordine. Nessuna visita ufficiale o ufficiosa. Sarò io a recarmi nel regno. Loro manderanno un ambasciatore all’oscuro di tutto, fuorché del fatto che deve portarmi da loro. Una volta sul suolo inglese, per sicurezza, chiederò che venga eliminato. Sarà anche un modo per testare la loro durezza.»

E così, la notte tra sabato 10 maggio e domenica 11 maggio 1941, un anonimo velivolo sorvolava l’Inghilterra, volando il più basso possibile per non farsi scorgere. A bordo c’erano Rudolf Hess, il prediletto di Adolf Hitler, alla guida del mezzo, ed il più improbabile dei compagni di volo: Cromwell Maddock di Begorath.

Ian Welsh, invece, fu il gallese che, uscito di notte a controllare le pecore del recinto che stavano belando spaventate, vide il velivolo avvicinarsi, sfiorando la cima delle colline più basse. Corse in casa. Prese il fucile da caccia del padre, uscì e sparò.

Ian Welsh aveva un’ottima mira. Come tutti i Gallesi.

Hess era davvero un valente pilota e riuscì in un impossibile atterraggio di fortuna, sbattendo la fronte contro la cloche al momento dell’impatto col suolo. Quando si riebbe, il suo ambasciatore se l’era bella che svignata. Da quel giorno Cromwell avrebbe acceso ogni domenica un cero alla Madonna. E avrebbe conservato la scatola di metallo piena di documenti riservati che aveva sottratto ad Hess svenuto, al sicuro nella cassaforte della sua dimora a Begorath.

Insieme alla laurea e all’abilitazione da notaio.

Senza mai farne parola con nessuno fino al 2002, pochi giorni prima della sua morte.