giovedì 31 maggio 2007

bisognava sapere come.

un racconto di Leo
…Solo Horadrim, la spada di luce, può fermare il lich!

Queste parole riecheggiavano nella mente del vecchio mago!
Strinse l’elsa della spada nella mano. Il non morto lo guardava con aria di sfida. Entrambe sapevano che uno dei due non ce l’avrebbe fatta. Lo stregone sarebbe morto per l’incantesimo del lich, o il non morto avrebbe subito sconfitta per mezzo della Lama di Luce, o peggio,sarebbero morti entrambi.

Interminabili attimi… la saggezza di mille anni, il ricordo dei suoi discepoli, tutto intorno a lui sembrava ovattato e rallentato.

Lo domineremo. Prenderemo il suo potere e lo faremo nostro! – Rumne, Amaros e SSiin, questo era l’intento dei 3 discepoli di Kaeleber.

Ho fatto scempio dei loro corpi e tratto nutrimento dalle loro anime. Cedimi la spada e morirai di una morte indolore.
Le parole del Lich rimbombavano nella sala grande del mausoleo come una tempesta di tuoni.
Gli occhi del vecchio mago caddero sui corpi martoriati dei giovani stolti…

Attimi di silenzio, nessuno dei due aveva coraggio a fare la prima mossa.
Quando questo silenzio fu rotto dalle parole del vecchio mago.

Maestro! Sono giunto fin qui per apprendere le tue arti e dominare il mondo al tuo fianco. Loro volevano fermarti e assimilare il tuo potere, ma tu, oh grande, li hai fermati!Fai di me tuo discepolo, te ne prego!

Lo stregone non morto sussulto a quelle parole. Mai avrebbe immaginato che il mago bianco, devoto alla luce, possessore di Horadrim, si sarebbe rivolto a lui in quel modo.

Dammi prova della tua fedeltà! – tuonò il non morto. – Fuori del mio mausoleo, il tuo amico elfo combatte contro i miei ghoul, recita su di lui l’incantesimo di morte, e sarai mio discepolo.

Le parole dell’incantesimo uscirono dalla bocca del vecchio mago, così come le lacrime solcarono il suo viso. Impercettibilmente.

E il lich lo fece suo!
Si poteva fare, certo. Ma bisognava sapere come...

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lunedì 21 maggio 2007

la stagione delle nebbie: quattro.

Ora stavano passeggiando, come vecchi amici, sotto la pioggia che aveva ricominciato a cadere con un placido scroscio.

Fammi capire: tu sei l’angelo del suicidio?
Del tuo suicidio!, rimarcò lui con orgoglio.

Gli diede una pacca cameratesca sulle spalle.
Guarda che lo conoscono tutti il loro angelo nero, quelli che si ammazzano, come te. Solo che lo vedono alla fine… nelle ultime due, tre ore prima di farla finita. Per te ho fatto un’eccezione, perché sei un tipo molto simpatico, e mi mancherai.
Ma come fai ad essere così sicuro che mi ammazzerò? E se cambiassi idea?
Non lo farai, altrimenti non sarei mai venuto da te. Solo quelli che poi lo fanno per davvero ci vedono. Sennò te lo immagini: una mandria di adolescenti con le loro crisette da liceali ricoverati in massa al C.I.M. perché dicono di aver conosciuto l’angelo della morte!
, ci si fece una risata sopra.
Allora il mio destino è segnato. Non ho più scampo…
Alt! Alt! Non cominciamo a scaricare le responsabilità! Sei tu che hai deciso di suicidarti. E fai sul serio. Adesso per qualche giorno ci girerai intorno. Poi uno o due giorni prima di farlo sarai anche di buonumore altrimenti come faranno i tuoi amici e parenti a dire: «Si. Era un po’ depresso, ma ultimamente mi sembrava più sereno...», è un classico del TG Regionale. E poi… ci hai già pensato?
A come farlo? No, non ancora.
Così ad occhio non sei un tipo da morte lenta, tipo gas o taglio delle vene: non hai pazienza. No, un bel salto nel vuoto… è ancora un grande classico. E se ti scagli da un posto bello alto… non avrai scampo, non ti preoccupare. Non finirai su una sedia a rotelle.


Acciari lo guardò con aria interrogativa, come se avesse appena capito che…
Esattamente! – disse lui, come leggendo nel suo pensiero – Un consulente! Una specie di consulente di morte. Io ho il compito di fare in modo che tu abbia la morte che meriti, la tua morte. Fatta su misura per te. Ho una vasta conoscenza in materia e sono a tua disposizione per qualsiasi consiglio o accorgimento. Ti prego solo di una cosa: né impiccagioni, né veleni, né armi da fuoco… – la sua voce si fece scura – …mi ricordano troppo la pena di morte.
Sei contrario?
Profondamente. È un atto infame. Solo l’individuo è padrone della propria vita. E poi l’idea di una morte di stato… Maiali fascisti!
Lo sai che se avessi avuto un amico come te non mi sarebbe mai passato per la testa di farmi fuori?
E invece guarda che strano: mi hai conosciuto proprio perché hai deciso di farlo…

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la stagione delle nebbie: tre.

Cannabis, sola consolazione del mondo! Specialmente quando ti toccano due mesi di fila di bassa manovalanza, al cantiere di Velletrani. A lui piaceva spalare ghiaia. Lo stridio della pala nel mucchio di sassolini lo tranquillizzava. Prendeva il ritmo di un dub nella sua testa e via… Ma c’era da impastare la calce, scaricare i laterizi, trascinare per il cantiere carrette e carrette di calcinacci. Decisamente non era un lavoro che si potesse fare senza canne. Possibilmente tante. Quel giorno poi era speciale: ultimo giorno di lavoro… e di paga. La sera prima aveva già sentito il bulgaro, che aveva preso i biglietti per Dawn Penn alla Palma. Oltre a mezz’etto.

Eh, già – si disse – stasera s…

Lucio, i pannelli! Lucio, oh!

Lucio si girò di scatto, traballando un po’. La pala era ancora infilata nel cumulo di ghiaia.
Se hai finito con la breccia, e se non sei troppo rincoglionito, è arrivato il camion con i pannelli. Aiuta a scaricare, cammina!

Senza dire una parola Lucio caracollò con lentezza studiata verso il camion, aiutò i ragazzi dello smorzo ad aprire le rive laterali e cominciò a scaricare i pannelli di legno giallo, accatastandoli con cura in una zona pulita del cantiere. Quando ebbe finito il capo andò da lui.
Lucio… però così non va! A me non me ne frega un cazzo che ti ammazzi di canne, ma la giornata te la devi guadagnare, chiaro? Per fortuna che è finita! A settembre, fai il piacere: non tornare che non ti prendo. Qua è pieno di rumeni che lavorano il triplo di te… e se voglio li pago la metà.

Bravo, complimenti! – fu il suo commento – E scommetto che li ricatti pure con la storia del permesso di soggiorno!

Velletrani, nervoso, prese il portafogli e gli mise in mano una banconota da 500, fresca di banca, crocchiante.
Tò! E vaffanculo!

Lucio sorrise stancamente, raccolse le sue poche cose, e si allontanò dal cantiere canticchiando: Get up, stand up! Stand up for your rights! Get up, stand up, don’t give…

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la stagione delle nebbie: due.

I capelli viola non se li tingeva più. L’anno prima aveva trovato in un porno shop una parrucca che faceva al caso suo. Non erano belli come i capelli naturali, no. Non facevano lo stesso effetto, ma per succhiare cazzi decise che, alla fin fine, potevano anche andare. Tranne nei casi come quel giorno, quando Remo, scansandoglieli dal viso per favorire l’inquadratura della telecamera, gli aveva levato la parrucca.

Stop! Ma dai! Ma così non gli viene duro neanche a Rocco Siffredi!

Gli altri operatori e gli inservienti del set risero di cuore.
Remo no, continuava a spingerle il pene tra le labbra.

Gira, gira! – urlava frenetico – Che sto per venire!

Lidia si alzò di scatto, e Remo si mise una mano sull’uccello per contenere l’eiaculazione. Poi corse al bagno, accompagnato dalle risate generali.

Lidia! – la apostrofò il regista – Ma che cazzo combini con quella parrucca. Già fa schifo, almeno fissala bene!
Senti, Gianni: il
Glande freddo è quasi finito. Ora non sarà quest’ultima venuta a decidere le sorti del film. Io non ce la faccio più. Tanto avevo già deciso di smettere.

Gianni fissò Lidia senza dire nulla. Erano amici da tanto tempo. Avevano cominciato insieme una decina d’anni prima quando lei, appena diciottenne, lo coinvolse come DJ in una serie di spettacoli sexy/goth nei locali di Roma. Il passaggio al porno era stato spontaneo, e non si può dire che non si fossero divertiti, oltre a mettere da parte una discreta somma. Ma Gianni lo capiva. Non è un cosa che dura per sempre. Se lo aspettava.

Ok, d’accordo, Lidia. Finiamo qua.

Remo era appena uscito dal bagno. Un ragazzone palestrato e abbronzantissimo. Aveva sentito tutto.

Ci mancherai, Lidia…, disse. E qualcuno degli operatori poi giurò di averlo visto piangere in camerino.

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la stagione delle nebbie: uno.

Una t-shirt verde, senza scritte. Jeans a campana e converse blu. Un basco grigio, di quelli estivi. Infatti era estate, ma pioveva e faceva freddo. La pioggia rigava la vetrina della boutique arancione e bianca. La pioggia rigava i suoi occhiali spessi, con la montatura nera. Le lacrime rigavano le sue guance. Neanche trenta passi lo separavano dalla piazza.
In un’altra vita ricordava uno spettacolo di circensi ambulanti tedeschi. Avevano montato le loro impalcature, le luci illuminavano il duomo, e volteggiavano leggeri sulla folla. Alla fine dello spettacolo, lo speaker sollecitò l’obolo da parte degli astanti ricordando che gli immigrati italiani in Germania erano stati accolti con amicizia. Anche quella era un’altra vita.

Poi quelli del cinema avevano costruito una gigantesca fontana di legno e cartapesta che occupava tutta la piazza. una macchina con gli stuntman avrebbe dovuto tuffarcisi dentro. Anni dopo conobbe una degli stunt, Michela. Lei era anche un’attrice. Era la compagna di un amico di suo padre, che lo andava a trovare agli arresti domiciliari. Michela aveva recitato in Amore tossico. Ancora ricordava il cartellone del film, nei primi anni ’80. Gli fece una grande impressione, confermata quando, tanti anni dopo, lo vide su Rai 3. Poi il suo amico non andò più a trovare suo padre e lui non vide più Michela, neanche nei film.

Attraversò rapidamente la piazza, estremo capo nord dello struscio cittadino e giunse alla fontanella. Per fortuna era estate e nessuno si sarebbe stupito nel vederlo sciacquarsi la faccia per scrollarsi di dosso le lacrime. Poi si tuffò lentamente tra la folla. Il corso era diventato una galleria del vento freddo, di quel giugno maledetto e così pieno di sconforto.

Lui si sentiva triste e svuotato, sopraffatto da tutto, oppresso.

Gli ambulanti senza permesso di soggiorno si preparavano a sloggiare, perché erano arrivati i vigili. Veloci, raccoglievano le loro mercanzie in lenzuoli bianchi lerci. Almeno aveva smesso di piovere. Faceva freddo lo stesso. Si infilò in un bar, ma nel vedere le vetrine con pastarelle e tramezzini fu preso dalla nausea e uscì in fretta. Accelerò il passo verso il parcheggio sul retro del supermercato che, dopo l’orario di chiusura, costituiva una valida alternativa al dazio delle strisce blu.

Lo trovò seduto sul cofano della sua Panda, che fumava una sigaretta. Un’ultima goccia di pioggia, con incredibile precisione balistica, si era schiantata sulla sua Marlboro, così che ora teneva in mano un mozzicone spento.

Rimasero a fissarsi per un bel pezzo, con lui che rigirava nervosamente le chiavi della FIAT nella mano.

Ehhh… – esordì quello con il mozzicone – Allora, eccomi qua!
Che?
Eccomi qua! Sono venuto con largo anticipo ma sai, di questi tempi non ho un granché da fare, così mi sono detto: «vediamo quanto ci mette»! Tanto io non ho fretta, per ora. Beh, è possibile che debba scappare per un’urgenza, ma non ti preoccupare: al momento giusto ci sarò!, concluse con orgoglio.
Ma chi cazzo sei?! Chi ti conosce!, sbottò Acciari.
Ma perché fate sempre così? Non vi capisco! Si direbbe che abbiate tutti la mania per il melodramma, voi suicidi…

Quelle parole lo fulminarono, come un pugno allo stomaco che non ti aspetti… come un pugno allo stomaco che ti aspetti ma non sai bene quando.

Perché si, Acciari in effetti stava pensando più che seriamente al suicidio.

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mercoledì 16 maggio 2007

le ceneri del geom. magni.

È un rumore che mi da confidenza col mondo, quello della suola delle scarpe nuove che scricchiola sull’asfalto di questa città di merda. Poi, nel tempo, la pelle si usura, si riempe di tante, piccole pieghe che si adattano alla strada e non scricchiolano più. Quando non scricchioli più è il segno della resa.

Io non scricchiolo più.

Ma le mie scarpe, oggi, si. Loro si che scricchiolano.

La Roma del futuro è dunque questa: una teoria di palazzi alti, mattoncini rossi, tetti a spiovente, i piani terra per le attività commerciali, tutti sfitti. Ma al 23 c’è la meta. Il portone, il campanello… geom. Magni.

geom. Magni te lo aspetti sul campanello dell’ufficio del geom. Magni. Ma il geom. Magni se l’è messo sulla targhetta di casa. Qui, a Roma, ci abita il geom. Magni, figlio di morti di fame marchigiani, che s’è preso nel ’61 il diploma di geom. ed è entrato a lavorare allo IACP (oggi ATER) grazie al calcio in culo con rincorsa di un dott. democristiano, passato a miglior vita nel glorioso ’77. Il Magni s’è sposato la sig.ra Tina Galli, romana de Roma, dice lei, ciuciara de Fumone l’anagrafe. Se l’è sposata nel 67, dopo che, con diligenza, s’era assegnato da sé una casa popolare a Valle Aurelia. Due figli, Stefania la grande e Luigi, classe 76. Stefania ha raggiunto il dott. democristiano nel glorioso ’81 a seguito di una sfortunata overdose nei cessi del Luneur. Luigi se la ricorda a malapena, perché a casa di certe cose non si parla. In cambio sta dando il meglio di sé, ripercorrendo le fulgide orme di Stefania, solo che lui si riempie di extasy e cocco a buon mercato, sputtanandosi quasi tutti i suoi 600€ di COCOPRO.

E, visto che è il mio giorno fortunato, quello con le scarpe nuove che scricchiolano, mi apre proprio il mitico Gigi, in mutande e canottiera, con gli occhi gonfi di sonno e droga, manco l’avessero caricato di calci di prima mattina.

Mi scusi, fa lui, ho pianto tutta la notte…
E dove? In discoteca mentre tuo padre schiattava di crepacuore? Lo penso ma non lo dico, sennò invece di fare le pompe funebri finirei a fare le pompe ai negri a Termini.
Capisco… dov’è il papà?
In… in camera da letto… Ma è vero che vi conoscevate?
Si. Due anni fa ho curato le esequie di sua madre, tua nonna Piera.
Ah… nonna Piera… io stavo… ad agosto… in Grecia.
Hm. Tua madre? Non ti dispiace se ti do del tu, vero?
No, si figuri… figurati. È di là, da papà.


La Tina è triste, ma non troppo. Il geom. la lascia comunque bene, con una buona pensione di reversibilità, casa di proprietà, ed una dignitosa assicurazione sulla vita che aveva stipulato, con la prudenza tipica dei geom., nel glorioso ’89.

Sbrigate le prime formalità passiamo a parlare da affari. Sono nervoso, perché qui, sulle mattonelle lucide e lisce, color finto cotto, le mie scarpe non scricchiolano più.

Senta, fa la Tina, in più di un’occasione mio marito aveva espresso il desiderio di essere incenerito.
Cremato, corrego discretamente io.
Si, si, cosato. Ma non ne abbiamo mai parlato seriamente. Si insomma, non c’è un testamento.
No, non serve. Lei è sua moglie, è pienamente titolata per interpretare le volontà del defunto a riguardo.
Quel “pienamente titolata” la gonfia dell’orgoglio dei coglioni.
Allora si. Lo inceneriamo!

E allora inceneriamolo!

Pochi giorni dopo siamo alla Camilluccia, dove il geom. e la Tina si sono conosciuti. Il parco della Camilluccia è davvero bello. Oramai anche qui è consentito spargere le ceneri dei defunti, percui siamo tutti qui. C’è la Tina, che ha speso i primi soldi dell’assicurazione in un abito tanto sgargiante quanto ridicolo. C’è Mario, ex fidanzato di Stefania e uno di famiglia. È stato proprio Mario a fare il primo buco a Stefy, nel glorioso '79. Poi lui ne è uscito, lei no. Ma questo non lo sa nessuno, neanche io. C’è il vecchio Antonio, padre di Tina ed arteriosclerotico fino al midollo. Un gruppetto di parentame vario dalle Marche e da Roma. E c’è il mitico Gigi, strafatto di cocco da far paura, che le occhiaie gli si vedono anche attraverso i RayBan nuovi di zecca.

E c’è il prete, che gli rode un po’ il culo perché il Vaticano è contrario alla cremazione, ma siccome gli ha battezzato i figli e conosce a memoria le confessioni della Tina su tutte le corna che portava il geom. ha fatto uno strappo alla regola.

Ma le ceneri no. Lui non le sparge, quelle. Quindi ci penso io.

Ora, al parco della Camilluccia le scarpe non scricchiolano, neanche quelle nuove. Ed allora decido di andare a fare le pompe ai negri a Termini.

La prego, dice la Tina molto, molto compassata, dica due parole, che don Ersilio…
Si. Ci penso io.


Amici e compatrioti! Il geom. se n’è andato. Ha raggiunto il dott. democristiano che l’ha inserito nella vita patinata della nostra bella Roma. Ha raggiunto Stefy, che stava talmente a rota che secondo me ha chiesto a San Pietro se gli rimediava una dose prima di sbatterla a bruciare nelle fiamme dell’inferno, magari in cambio di una bella sega. Ha raggiunto nonna Piera, che se invece di venire quel Ferragosto caldissimo a morire a Roma se ne fosse restata al paese, forse a quest’ora sarebbe ancora tra noi.
Per sua stessa volontà il caro estinto ha chiesto di essere incenerito. Credo perché, in un angolo del suo cervello, fosse pienamente consapevole che certe cose, certe cose sublimi nel loro squallore devono essere incenerite, chè se ne perda la memoria il prima possibile. Ed infatti, parenti e partigiani, il geom. non vi lascia una gelida pietra sulla quale piangere negli anni a venire, ma un mucchietto di ceneri sul quale estinguere oggi, ed in un solo colpo, tutto il vostro lutto pezzente. Se al mondo, cari compagni di merende, ci fosse un po’ di coerenza, il mitico Gigi dovrebbe sniffarsi le ceneri di papà.


E amen.

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martedì 15 maggio 2007

nosejobs vampyrium.

Nose… che?
Hm, nosejobs! Dai, non dirmi che non ne hai mai sentito parlare!
Veramente no. E non riesco ad immaginare neanche che roba sia.


Flavia sorrise maliziosa tra le pieghe del vestitino leggero a fiori, molto primaverile, molto.
Beh… come spiegartelo… noi… si, insomma, noi lo facciamo tutte.

Adriana guardava divertita Flavia arrossire: non era da lei… questi nosejobs dovevano essere qualcosa di molto intrigante. E doveva essere una cosa di sesso. Si, si. E lei aveva anche l’oracolo del nuovo millennio pronta a darle una mano.

Sul motore di ricerca…
Cosmetic Surgery, Plastic Surgery Forum - Nosejobs Cost
Celebrity nosejobs

e via dicendo.

Ma… cazzo! È chirurgia plastica! Si sono tutte rifatte il naso?!
Flavia, Lidia, Cinzia, Sara… loro forse si. Si nel senso che avrebbero potuto farlo. Ma Solange, Desiree, Chantal. Loro no! Loro erano nate perfette ed avrebbero vissuto tutta la loro vita immerse in un’aura di luce. Loro i nosejobs no! Mai!

Poi la primavera si fece estate. Cominciano le feste nei giardini dei villoni dei ricchi. Questa in particolare stava sull’Appia Antica. Il dono della maestà costa ben poco. Un paio di stracci costosi e l’incantesimo più antico del mondo si fa carne, e sangue… e nosejobs.

Dai, vieni! Sarà divertente!
Flavia tirava Adriana per la manica della giacchetta finto stylish, comprata al mercato per 3€. Si stavano inoltrando in un boschetto che abbracciava tutto il lato della villa che non dava su strada.
Adesso lo facciamo, le aveva detto tutta eccitata!

Farlo qui… adesso? Ma questa è roba che si fa dal chirurgo!
Ma che idee perverse ti vengono in mente, Adri? Dal chirurgo? E perché, poi?
Ma come perché… ma dove stiamo andando?
Nel palazzo dei desideri!
Rispose Flavia enigmatica.

Vale a dire nella dependance del servo di casa, che in quanto servo di casa era stato sloggiato dal Tommy, al secolo Tommaso Morraca, figlio del più grande palazzinaro di Roma da parte di padre e della più grande puttana del Lazio da parte di madre. La casa del servo era stata adibita per quella notte a PALAZZO DEI DESIDERI.

Sul tavolino di legno nero di Ikea troneggiava un 20 grammi di cocco. Moony – Dove era la colonna sonora di quel mille e una notte.
Adriana aveva occhi solo per il cocco. Non l’aveva mai visto in vita sua. Neanche si accorse che Flavia, Chantal, Solange, Desiree e mignotte dicendo si stavano preparando al nosejob.

Ma che c’hai presente la margarita? La dolcissima voce a scora di Solange.
Il cocktail? Si. Si prende un pezzo di limone… e poi uno shottino di tequila, no?
Siiiiiii!! Anche qui è una cosa del genere… ti fai un bel tiro e poi…


Poi lo sguardo di Solange corse rapido verso Tommy, che si stava facendo spompinare da Flavia... ma in maniera... strana.

Poi…? Chiese Adriana, ma non era sicura di voler sentire la risposta.

Poi… intervenne Desiree.

Poi il servo entrò con la motosega che aveva preso nel capanno degli attrezzi. Era accesa e spargeva un allegro odore di benzina per la dependance. Dopo quindici anni di onorato servizio, trascorsi amabilmente a mandare giù merda e a fare da schiavo ad una manica di magnaccia, il servo aveva deciso che era ora di fare giustizia proletaria.

Peccato per Adriana che, davvero davvero, non c’entrava un cazzo.
Però ebbe il tempo almeno per capire cosa cazzo fossero quei nosejobs.
Flavia aveva ragione: il chirurgo non serviva.
Non per certe cose, almeno.

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lunedì 14 maggio 2007

la dea.

Poi la vide: fulgida, misteriosa e terribile come il mare in tempesta.

I suoi occhi incrociarono quelli di lei. Erano neri e profondi. La debole luce delle candele si rifletteva in quei pozzi di pece, come stelle lontane e solitarie in uno spazio infinito.

Indugiò sul suo seno, generoso e prorompente; coronato da capezzoli duri come nocciole acerbe.

Poi i fianchi torniti e scultorei, sinuose curve, come le spire d’un serpente nelle quali lo sguardo quasi si perdeva.

Scese ancora più giù: la vagina glabra stillava dolcissime perle di passione.

Lui si avvicinò alla sua dea, il suo guerriero dalla testa di porpora scalpitava, bramando il connubio carnale.

Quando le fu da presso, le parlò in un sussurro:

Sei pronta? Sei pronta per il piacere oltre il piacere? Sei pronta per il godimento oltre ogni godimento? Sei pront…

Ma lei lo interruppe bruscamente:

NOOOOOOO. MALEDETTO!! MISERABILE NULLITÀ. IO TI ODIO! TI ODIOOO!! DAL PIÙ PROFONDO CENTRO DELLA MIA STESSA ESSENZA, IO TI DISPREZZO!!! CON OGNI MIA SINGOLA FIBRA, CON OGNI MIO RESPIRO, CON OGNI MIA FORZA TI ODIOOOOOOOOOOOO. PORCO IDDIOOOO!!!!!!!

Amen.

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un mare di sonno.

Quante, quante parole… Le sento e le vedo rimbalzare da una parte all’altra della stanza. Si mischiano al fumo che galleggia nell’aria, si incrostano alle pareti.


Un bla bla bla continuo e fitto: ora sono immerso in un piccolo mare di parole. Sono un logonauta su un traballante trespolo di similpelle verde. Non ci sto capendo un cazzo, tanto per cambiare. Ma quanto è bello naufragare nelle chiacchiere degli altri! Vedere le loro bocche che si muovono e non riuscire più ad assegnare a ciascuna persona un discorso! E tutto, secondo dopo secondo, rallenta. Suoni stroboscopici che diventano un mugghiare indefinito, quasi un mare rabbioso contro scogli incrostati di catrame. Vengo trascinato ora di qua, ora di là.


Esattamente davanti a me, il divano, sporco e ingombro di persone, cappotti e giacconi. Chiudo gli occhi e me lo immagino improvvisamente sgombro. Allora faccio per sdraiarmi, ad ascoltare ancora e ancora questa ninna nanna improbabile e stonata.
Voglio andare a casa a vedere un film, fumare una sigaretta e tuffarmi nel letto, ma ho un po’ paura: fuori fa un freddo cane, e prima che parta il riscaldamento della macchina, potrei anche assiderare.


Io lo so che nelle loro chiacchiere stanno parlando anche a me, e che io non risponda debba sembrargli tremendamente scortese.


Ma chi siete? Che ci fate appesi a mezz’aria? Qui non c’è abbastanza luce. Guardatela: sta colando tutta giù per le scale. Troppe parole cacciano via la luce, e al buio nemmeno i più saggi hanno niente di importante da dire.


Nessuno mi risponde, e capisco di non aver parlato.

Rumori dalla jungla. Lo scimmione sulla sediola di plastica grigia si batte il petto.
Sono io il capo!


Una gallina impagliata fa un verso che viene dall’oltretomba: coooo co cooo. Poveraccia.


Ecco un depresso con le orecchie tappate. Credo che davvero non sappia che farsene della sua vita. Ed un altro sta gridando a squarciagola, tanto forte che non si capisce cosa stia dicendo.


Poi parla anche un venditore di pentole che ha un buco nella borsa. Le sue chiacchiere fanno clang, come le pentole. Tutti i suoi soldi scappano via da quel buco. Ma lo ha fatto lui, perché, in fondo, non è capace a portare dei pesi.


Amore mio dove sei? Voglio stare tra le tue braccia. Voglio ascoltare solo te, che mi dici che tutto andrà bene, che mi ami e che il tempo è il meraviglioso gioiello sul nostro anello nuziale. Vieni a portarmi via da questo Grand Guignol. Tra poco si consumerà l’ultimo atto ed io, davvero davvero, non vorrei esserci.


Allora lei, anche se non ho detto nulla, mi ascolta. Anche se è lontana mi capisce. Allunga la sua mano tra i chilometri, e mi tira via. È una strega, e mi fa tanto sottile quanto un’ombra. Come è facile così scivolare via, indisturbato!

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incontro di notte.

È notte. Fa un po’ freddo. Sto solo, appoggiato sul muretto. Mi fumo con calma una sigaretta. Quel tizio si avvicina. Prima che apra bocca sono già convinto che sia un tossico del cazzo, barbone di merda ubriaco o una cosa del genere. Ha i capelli neri a mezza misura, jeans marroni e una schifosa giacchetta di pelle dello stesso colore. È basso.


Una sigaretta, per favore?


Voce lamentosa: già lo odio. Ho le sigarette, non voglio dargliele. Lo guardo per qualche secondo prima di rispondere, giusto per il gusto di farlo aspettare. Alla fine gli do una sigaretta. Gli passo anche l’accendino.


Mi pento subito di quello che ho fatto, perché lui si siede vicino a me, che voglio star solo. Ho già capito: adesso attacca a lamentarsi di qualche disgrazia o miseria tipo: La mia ragazza mi ha lasciato e s’è messa con un altro., e merdate del genere.


Vaffanculofigliodiputtanastronzobastardotestadicazzorottinculoebbreofrociodimerda.


Lo penso tutto d’un fiato. Ma non c’è che dire, il vero coglione sono io che gli ho dato spago.


Lui mi guarda, sospira pateticamente e sussurra:
Ah, le donne!


SI! VAI COSÌ, TESTA DI CAZZO GALATTICA! Dì stronzate, fammi incazzare, dammi una scusa per gonfiarti di botte.


Io non ho mai avuto una ragazza., mi dice il tizio.


OK. Fermi tutti. Non è la solita sequela di puttanate. L’imbecille deve stare a pezzi per confidare al primo cazzone che incontra una cosa così personale. Allora mi dico: fallo parlare, fallo aprire un po’ di più, vedi dov’è la ferita… e colpisci dritto là; il pupazzo si mette a piangere e io me ne vado a dormire più contento, oppure reagisce e io lo riempio di calci in culo fino a farglielo sanguinare e vado lo stesso a dormire più contento. Sfodero il miglior tono di voce.


Quanti anni hai ?, gli chiedo.
Diciotto.
Hai mai…
Mai cosa?
Dai scopato, chiavato, fottuto, inzuppato il biscotto. Cristo, sto già perdendo la pazienza e rischio di rovinare il gioco. Mi riprendo con una risata di plastica.


Ah…», fa lui, «Si ma… è strano. Ottimo, si sta scucendo.
In che senso strano? Sto cascando dalle nuvole meglio di un gesucristo.
I miei amici sono cattivi. M’hanno portato da una puttana per farmela scopare, giù a Roma. Sono cattivi. Io non venivo. Ero confuso e avevo paura e loro mi incitavano e mi dicevano che se non venivo ero un culattone. Ma io non ci riuscivo a venire. Volevo andarmene e anche la donna iniziava a ridere. Immagino che visto il mestiere che fa il suo unico, piccolo orgoglio sia quello di poter dire di saperci fare con gli uomini. E allora io gli devo essere sembrato proprio una merda, gli avrò fatto pena. Poi i miei amici mi hanno portato via. Volevano prendermi in giro ma io per zittirli mi sono messo a piangere e loro non hanno detto più una parola per tutto il viaggio.


Ha finito. Si aspetta un commento, forse. Chi sono questi amici cattivi? E chi cazzo sei tu? Fai talmente pena da sembrare finto. Non trovo niente di meglio da dirgli che:


Allora non hai mai scopato, dico bene?
No. Perché poi ho raccontato a mio padre quello che mi avevano fatto i miei amici cattivi. Allora lui mi ha portato da una signora di quarant’anni, sposata e con due bambini che mi ha scopato. Con lei ce l’ho fatta.


Va benissimo, stronzone. Mi hai rotto il cazzo, ti ho dato una sigaretta e mi fai così schifo che non voglio neanche umiliarti. Ora levati dalle palle. Ancora una volta, però gli dico:
Capita., cercando chissà perché di avere un tono consolatorio.


Senti, - mi fa lui - che hai la macchina? Mi puoi accompagnare al ponte sopra la stazione?


Sudo freddo. Il coglione si vuole ammazzare, sicuro. Lo voglio dissuadere, adesso lo gonfio e lo ammazzo io. Sputargli in faccia, fargli capire che non conta un cazzo, zero, niente. Poi lo accompagno. Lui monta sul muretto del ponte. È un bel salto: venti, forse trenta metri. Mi guarda e forse si aspetta che gli dica:
Fermo, ma che fai! Non puoi buttare la tua vita così!, e altre merdate del genere.


Lo guardo ancora, gli faccio un cenno con la testa. Questo testa di cazzo ha proprio sbagliato persona oggi. Prende il fiato e salta. Un gran volo, non c'è che dire. Mi accendo un'altra sigaretta e me ne vado.

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l'odore della musica.

È incredibile il freddo che riesce a fare in questi giorni! Non dico dieci giorni, ma neanche una settimana fa era estate. Calda, umida estate. E adesso sto qui a battere i denti, da solo. E a motore spento, per giunta.


Mi fa anche incazzare il fatto che a questa merda di macchina gli hanno rifatto la tappezzeria. Non ci vuole un segugio: la puzza dei sedili in similpelle è a dir poco inconfondibile: roba nuova. E perché ci hanno rifatto la tappezzeria? Boh! Dall’altro capo della via c’è la mia Mecca: due filamenti di neon blu elettrico ad arco, molto anni ’80: d’altronde il locale è per darkettoni, new wave, quella roba là. E siccome so che lei, Acciari, è un conoscitore dell’ambiente giovanile ci mandano Acciari a fare le poste.


Due ore… due ore e neanche il tazzone di caffè da film americano. Meglio così: il caffè mi fa schifo, e l’America pure. Non fumo, ho smesso. Splendido! Non esiste un modo migliore (peggiore) per rompersi le palle, anzi no: per fracassarsele di brutto.
Mi consolo spizzando a fondo il buttafuori: anche lui è in tema col locale. Le discoteche serie, anche quelle rocchettare, si concedono il lusso di armadi a sei ante, pelati e stronzissimi. Questa qui si può permettere questo capelli-lunghi-ma-non-troppo, un ragionier Filini della violenza: palestrato, ma da mare, lampada e faccia da coglione. Mi ci gioco le palle che fa arti marziali. Quelli delle arti marziali sono i migliori: basta un calcio in culo per metterli a cuccia.


Che palle! Che palle, che palle, che palle! Oppure… beccato! Eccolo lì. Entra adesso. Mi conviene fotografarlo ora: a giudicare da tutta la gente che ho visto entrare ritrovarlo potrebbe non essere una passeggiata. Cominciamo: pantaloni neri attillati a campana di stoffa, non jeans, direi… pelle di diavolo. Giacca velluto nero… collettone. Uh, camicia bianca con sbuffi, stile ‘700/’800, quello che è. Pettinatura diversa dalla segnaletica, a schiaffo. Ah, gli anni ’80: Bronsky Beat e via dicendo.


Non è solo: lei è… tettona… molto tettona, bassa, calze a rete, stivale pelle nera… cazzo che zinne… pare che vogliano saltar fuori dal corpetto… pelle nera il corpetto… capelli viola a ciocche… scommetto che da vicino si può vedere la corona rosa dei capezzoli che fanno capolino. Soprabito nero, lungo, tipo trench. Clic, fatto. Loro entrano. Io controllo il ferro e vado. Due secondi due di fila (tre persone davanti a me) ed il buttafuori mi fa:
Eeee, tessera nera o viola?
Oddio, io lo sapevo che era un cacacazzi.
Prima volta. Che cambia?
Lui, svogliato, aria di routine, aria da che palle questo che non è un goth e viene qui solo perché le darkettone si vestono da zoccole!
Allora, tessera nera paghi l’ingresso 10 € e hai una consumazione omaggio. Tessera viola NON paghi l’ingresso e NON hai una consumazione omaggio.
Immaginando quali possano essere i prezzi della casa, la differenza è praticamente nulla: o gli pago da bere in anticipo, o lo pago dopo al bancone. Ma io sono quello complicato.
Senti, io non ce l’ho la tessera.
Allora vai al guardaroba e la fai là.


E cacami il cazzo allora! Se la manfrina la facevo direttamente giù al guardaroba, almeno potevo cioccare dove se ne andava il tipo.
Uno, due, tre… sette scalini dipinti di nero mi portano in un bell’ambientino raccolto, circolare. Davanti a me una doppia porta imbottita mi rimanda una versione sbiadita ed attutita del casino che sta succedendo dentro. A sinistra, un divanetto in vellutino blu, come tutta la sala. A destra il gabbiotto del guardaroba con dentro indovina un po’… la tettona!


Lei mi guarda in un modo così strano che per un secondo ho l’impressione che abbia capito che sono una madama e che mi voglio bere il suo uomo. Poi capisco che si è accorta che le sto guardando le tette: è vero la corona dei capezzoli si vede. Lei mi fa:
Sono 3 € per il guardaroba.


Della tessera non gliene frega un cazzo. Io adesso potrei tranquillamente pagare (o non pagare) il guardaroba ed entrare. Ed infatti faccio così. Con riserva mentale di ribeccare dopo la tizia, se mancassi il tipo.


La riconosco subito: Frankie goes to Hollywood – Relax. Mi ricordo il film assurdo di Brian de Palma: Omicidio a luci rosse, con Melanie Griffith, che non so perché sovrappongo sempre a Meg Ryan, un po’ come con Barbara de Rossi e Elena Sofia Ricci, anche se nessuna di tutte e quattro somigli minimamente all’altra. Hm… Prima cosa… una mappa sintetica ed intuitiva del posto: una sala che corre da destra a sinistra. A sinistra più lunga, ospita i tavoli, tutti occupati da gruppi di goth, in fondo una specie di area esibizioni, una tizia tristissima che balla. Situazione: è una cliente abituale che fa la ballerina e ha convinto i gestori ad organizzare una specie di spettacolo di danza… infatti c’è un volantino fatto a mano e fotocopiato… Lady Shalott’s medieval danse macabre. La data è di oggi. È lei. Tra i tavoli e l’area ballo, a sinistra un banchetto di piercing e tatuaggi lavabili, a destra un banchetto con roba in pelle tipo fetish, ma mi sa che è avanzo di un pornoshop. La prima volta che sono entrato in un pornoshop è stato ad Amsterdam, begli anni fa, oramai. Non so perché mi ero immaginato un bordello, con commesse zoccole nude, che ti scopavano solo perché eri entrato. Che ne so: per farti provare la merce. Ne eravamo usciti con una fiala di popper e ci siamo strafatti per giorni. Il posto, invece, era tutto lindo e pinto, tipo supermarket dei surgelati. Sono stato anche in un porno qui a Roma, ma ero già in servizio. Sembrava una bisca, e infatti lo era.


A destra la sala finisce dopo pochi metri, c’è una porta, che è il magazzino della birra e delle bevande. I cessi in fondo, dall’altra parte, dietro la ballerina dei poveri. Davanti a me, per metà della lunghezza della sala, il bancone. Poco profondo. Tre cameriere, ovviamente megasorche. Ma una, se ho ancora il naso buono, non è una goth: ci si concia per lavorare. Un botto di clienti si accalcano. Sul mio lato, ma più in fondo a sinistra c’è una doppia porta con una cameretta di decompressione ed una scalinata che dà sull’uscita di emergenza. Oltre il tutto la discoteca. Ora gli vado a dare un’occhiata, prima controllo qui. Al bancone. Aspetto, aspetto e…


…i… c..mz..ione???
Cheeee? Non ho capito! Parla più forte! la prego. Lei mi sorride, gentile.
La consumazione! Hai il biglietto della consumazione?
No. Ma mi prendo un… un succo di frutta… a quello che ti pare aggiungo, prima che diventiamo scemi per scegliere il gusto. In un attimo ho il mio succo di frutta alla pera.
5 €, dice. Mica male per un succo alla pera! Pagare.


C’ho una sete del cazzo e il succo dura pochi secondi. Poi, con la scusa del cesso, mi spizzo la gente dei tavoli. Goth, goth e ancora goth. Lui non c’è. Loro non mi si inculano. Intorno a Shalott (che con quella faccia secondo me si chiama Cinzia) quasi solo amici, più due personaggi tipo me (non sbirri, quelli non darkettoni che vanno al locale dei darkettoni perché le femmine si vestono da zoccole) che se la stanno mangiando con gli occhi. Intanto le danze medievali di lei sono diventate che si è tolta il vestito lungo da Mortisia e adesso balla in body e calzamaglia. Il body le entra dentro lo spacco del culo mettendo in risalto le chiappe ben fatte, da ballerina. Via, dentro al cesso. Che è un cesso. Ma secondo me più per fare scena che per incuranza dello staff. Si, insomma: te lo immagini un locale dark/goth/punk/extreme uscito paro paro da un film americano coi cessi puliti? È come trovare una cacata nel salotto buono di Windsor. Via, fuori dal cesso. Comunque in questa sala non c’è. O è andato in puzza ed è uscito dalla scala d’emergenza mentre entravo… o sta ballando.


Il volume è assordante. È Iggy Pop, ma non mi ricordo il titolo. Bello. Tutto vellutino nero. Corre, lunga davanti a me. Non lo vedo il fondo, perché la sala è zeppa di gente. Si sta stretti e si soffoca un po’. Nell’aria il dolciastro odore del ghiaccio secco, che mi fa vomitare, ma mi ricorda quando suonavo da pischello coi miei amici ai locali. E quando sparavano il fumo non mi pareva vero. Quest’odore per me è l’odore della musica.


In puro stile goth, un po’ retrò forse, la strobo la fa da padrona. Oh, cazzo! Va tutto a fotogrammi. Io mi ci inflescio troppo con questa roba. Prima di tutto finire la mappa, se non c’è urgenza. Tiro verso il fondo del locale. A metà strada, sul lato sinistro c’è il gabbiotto del DJ: due tizie gli stanno facendo la posta per mettere su qualche cosa. In fondo c’è una specie di palchetto, rialzato di neanche un metro. Non c’è nulla tranne le due più carine della serata che si improvvisano cubiste eroto/sexy. La lampada ultravioletta accende di bianco, come piccole stelle, il pulviscolo sui vestiti neri dei goth, e fa risaltare i miei jeans, manco fossero la tuta catarifrangente di uno dell’A.N.A.S.. Mappa fatta. Ora ti prendo, stronzo.


Per prima cosa mi immergo silenzioso tra la gente che balla. Le goth hanno questo di particolare quando ballano: ti fanno venire il cazzo come una spranga. Le sbatteresti tutte al muro e te inculeresti a sangue, così, davanti a tutti. E non gliene fregherebbe un cazzo a nessuno, sicuro: fa decadenza dark. Mi fermo vicino ad una gattina, piccola piccola, con delle unghie lunghe… finte…viola… Mi giro. Eccolo! Sta dentro col DJ a chiacchierare. Si conoscono, è chiaro. Attraverso la sala. Sono all’imbocco del gabbiotto. Aspetto che esce e lo becco… CAZZO DI DIO!!! In un attimo mi ritrovo per terra, e non ci capisco più un cazzo. Non so se sono cascato, se mi hanno spinto di proposito… o se un coglione ubriaco si è schiantato per terra e mi si è portato appresso. Fatto sta che per qualche istante l’attenzione della sala è concentrata su di me: quel tanto che basta al mio amico per sgamarmi e schizzare verso l’uscita d’emergenza. Mi rimetto in piedi in un attimo e gli parto dietro. Camera di decompressione, gradini, porta antipanico. BAM! Pioggerella gelida del cazzo e un cassonetto in pieno petto che il tizio mi ha lanciato prima di ripartire. Io già sto col fiatone.


Fermo, stronzo! ‘Ndo cazzo vai! Se corri mi fai incazzare peggio e quando te prendo te sfonno! Dove cazzo vai!, ma lui niente. Quando ti prende l’adrenalina… la paura… allora cori, corri e non te ne frega un cazzo di niente.
Dai, che se lo becco prima della fine del viale va bene. Dopo stiamo su via Merulana. A quest’ora di sabato le macchine vanno che Dio le manna, e se lo stronzo attraversa rischio di perderlo. A tre quarti ho recuperato quasi tutto. Gli sto col fiato sul collo. Neanche dieci metri… sei mio! Ora ti fotto. Me lo tiro giù per terra, e prima di fargli capire che succede vado giù a calci sulle costole… uno anche in faccia, tanto per stordirlo… due, và. Poi gli sto col ginocchio sul collo, e inizio a frugargli nelle tasche. Una coppietta che passa è terrorizzata e mi guarda. Alè, noblesse oblige. Fuori the tesserino.
Polizia! Circolare! Levatevi di mezzo: è un arresto!, e intanto me lo tiro sul marciapiede.


Allora… vediamo che c’hai qui. Chiavi di una Opel, portafoglio, tre canne di fumo.
Ma che cazzo vuoi! mi fa lui, e dice “vuoi” con la “o” chiusa, da napoletano. Aho, fosse il primo di darkettone napoletano che becco! Non si sa quanti sono. Napoli spara, Acciari si incazza. Questa porcazoccola di pioggia mi sta colando dentro il colletto e mi prende una voglia di casa, doccia calda, radio, libro, letto. E invece appresso a questo testa di cazzo, eh?
Me fai male! Sbirro ‘e mmierda! Fascista del cazzo!


Eccolo là! È un classico. E che non c’hai ragione? Che senso ha che mi metta a dire che no. Non sono fascista. Manco per il cazzo. Anzi, tu non sai che cazzo è difficile essere comunisti in un ‘ambiente dove il più democratico dei tuoi colleghi costringe i pischelli arrestati alle manifestazioni a cantare Faccetta Nera… a calci e manganellate. Ma è proprio vero? Se ero questo gran compagno a fare lo sbirro non ci finivo. A fare la carriera anche di meno. A farmi il nome da testa calda, ma ottimo elemento, manco a dirlo. E allora mi sa che tieni ragione te, guaglionciello mio: sono sbirro… ergo fascio del cazzo.


Lo tiro su e ci mettiamo a riparo sotto una tettoia.
Dai che non ci faccio un cazzo con te. Dimmi dove sta Ruoppolo e te ne vai affanculo subito. Manco ti porto in commissariato per la segnalazione.
O! Sbirro! L’anema ‘e chi t’è muorto.
Vale a dire: li mortacci mia… e de chi te campa, scoreggia napoletana!, e una ginocchiata in panza non gliela leva nessuno. Dai, che se mi fai incazzare, tiro fuori il pezzo e ti faccio cacare in mano.
Dai, che se mi fai incazzare, tiro fuori il pezzo e ti faccio cacare in mano! Ruoppolo. Dove cazzo sta Ruoppolo, eh?! DOVE!


Eeeeeee BAM n°2!! Che mazzata! L’amichetta m’ha preso in piena nuca con… con… noooo: un ombrello di quelli da pastore feroce, col manico di legno durissimo e pesantissimo. Centro perfetto. Porco il dio, vedo le lucette. Questi stanno così a duemila che se svengo ora, magari m’ammazzano pure. Grosse lucette, il rumore della strada passa in primo piano. Sento RUUUM RRRRUUMMM RRRRRRRRUUUUUMMMM nelle orecchie e mi vedo la faccia distortissima riflessa in una pozzanghera… cazzo… ciaoooo… Avanti! Mano sinistra nella pozzanghera: gelida, bene. Mano a coppa… in faccia! Aaaaahh! Bentornato me sul pianeta Terra! Ora vi inculo a morte. La puttana non se l’aspettava che mi rialzavo, e già era andata a badare al boyfriend. Con un’unica mossa sto in piedi e sparo una capocciata in faccia alla troia viola. Uno schizzo di sangue l’accompagna sull’asfalto. Poi prendo il ferro, di calcio… e gli sfascio la faccia allo stronzo. Gliene do tante quante me ne vengono. Quando ho finito lei sta per terra: si lamenta e piange. Lui neanche quello. Il merda mugugna, maschera di sangue del cazzo. Ve l’avevo detto, eh, che si scopava a morte stanotte, stronzi!


Adesso, siccome tu non vuoi (con la “o” chiusa) parlare, me lo dice lei dove sta Ruoppolo. Sennò me la porto in commissariato e ce la scopiamo tutti finché i capelli non le diventano biondi! Hai capito, pezzo di merda? Eh? Si fotte stanotte. Si fotte la tua donna. Porco dio, sulla scrivania me la faccio. Pure nel culo, hai capito? E poi je sborramo tutti su quelle belle zinne grosse, tutti insieme, da bravi colleghi sbirri fascisti di merda!


Tiene un appartamento sulla Casilina, a Torre Angela. Ti ci porto.
E ti ci voleva tanto, cazzo? Vai, puttana! Alzati e vaffanculo. Tu mi porti da Ruoppolo e poi te ne vai affanculo pure te! Acciari c’ha una parola sola. Ci voleva tanto?


Roma di merda, che però pare che certe volte ti si sintonizza addosso: ha pure smesso di piovere.

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il ballo dei poveri.

Ci sono certe serate talmente depressive, che ti trovi a pensare che siano frutto di un’allucinazione paranoide. Quel tipo di serata in cui tutti sono stronzi e/o ce l’hanno con te. E tu, di riflesso, li odi fino a desiderarne realmente la morte. Il lato oscuro della Luna: ecco dove cazzo sto stasera. Mi viene il fiato corto, una specie di ansia e la voglia di andarmene… ma non me ne vado. Sto tanto per stare, per non tornare troppo presto a casa, per essere l’ultimo ad andarsene… o per inerzia di merda. Alla prima battuta, scatto. Bestemmie e insulti mentre prendo la giacca e finalmente imbocco l’uscita. Venti passi contati mi separano dalla macchina, e con la mano sinistra nella tasca del cappotto già accarezzo la custodia del frontalino: voglio guidare molto piano, per sentire qualche canzone prima di arrivare a casa.


Ma per questa serata il destino ha in serbo qualcosa di veramente speciale per me: non la solita sbobba riscaldata tipo turiste zoccole ubriache che te la sbattono in faccia. No no. E come coagulato dalle ombre di un albero e di un lampione fulminato, vedo Marcellino.È fermo, ieratico, sigaretta in mano.


Che cazzo fai, ti vuoi surgelare?
No. No! NO! NOOOOOOO!!!
inizia a strillare nel parossismo, battendo i piedi velocissimo.
Con due salti gli sono addosso. Calma! Stai calmo. Che è successo? Abbassa la voce, dai. Abbassa la voce! Non strillare, porco dio, non strillare, NON STRILLAREE O TI RIEMPO LA BOCCA DI MERDA DI CANE, PORCACCIA MADONNAAA!!! Così il casino ora lo facciamo in due. Solo quando smetto di gridare mi accorgo che Marcellino mi sta guardando e sorride: c’è qualcosa che vuole dirmi, ma è qualcosa di così grosso che l’emozione gli blocca le parole in gola.


Lo prendo sottobraccio e ci facciamo quattro passi per l’Appia.
Racconta. Che c’hai?
È bellissimo… e… e non si può spiegare a parole… devi vederlo… e puoi farlo ora, proprio adesso… io l’ho scoperto per caso… è per questo che stasera non sono venuto, sai?, e inizia a deviare verso la sua macchina.


Entriamo, lui mette in moto e parte. Io faccio per accendere lo stereo, ma lui mi blocca con decisione la mano.
Eh, no! Devi avere pazienza, devi…
Pazienza di che? Di che cazzo parli? Che ti sei calato?
Lui mi sorride enigmatico.


Intanto siamo entrati in una specie di periferia dietro l’angolo, uno di quei posti a un passo da casa tua di cui probabilmente ignorerai l’esistenza per tutta la tua vita di merda. C’è una specie di collinetta, formata da terra di riporto e spazzatura, con in cima la carcassa di una Renault 4 e altra robaccia.


Ma che sei stronzo? M’hai portato dove vanno i froci a scopare, i bucatini a farsi eh? Oh porcodio, sto parlando con te. Non mi devi far incazzare hai capito? lo prendo per il giaccone e mi viene voglia di picchiarlo.
Ma nella mia foga quasi non mi sono accorto di una musica gracchiante che viene da dietro la collinetta. Musica e un vociare denso.
Marcellino mi prende per mano e mi porta in cima.


Arrivati su mi dice: Stai basso, non farti vedere. Strisciamo dentro la R4 e da là buttiamo uno sguardo di sotto.


C’è una cazzo di macchina, mi sembra una… una… una cazzo macchina insomma. Ha il motore accesso, i fari spianati, gli sportelli e il portabagagli aperto. Da dentro viene una musica da autoradio a tutto volume: This is the rhythm of the night… the night… oh yeah, the rhythm of the night. This is the rhythm of my life… my life…


È vecchia. È una canzone oscena, e per di più vecchia. Mi affaccio ancora di più. Nell’area delimitata dai fari della macchina ci stanno, strette strette, una ventina di persone tra ragazzi/e, signori/e e vecchi/e.


Ballano!!!! bisbiglia Marcellino eccitato come davanti ad una fregna che scola voglia bollente di cazzo.
Li vedi? Ballano! Guarda che miserabili uomini di sborra. Devono essere tipo albanesi-qualcosa-dell’est-o-una-cosa-del-genere, che ne dici?


Annuisco, con lo sguardo fisso su di loro. Ballano davvero… e si divertono, sorridono, battono con le mani il tempo di quella canzone di merda che qualcuno deve aver registrato a sangue su una cassetta, per farla durare.


L’ipnosi prosegue finché non è il mio Virgilio a riportarmi sul pianeta.
Hai visto dove ti ho portato? Dimmi se ne valeva la pena? Certo che valeva, cristo infame. Ma il divertimento non finisce qua. Abbi fede.


Dopo un’altra ventina di minuti la festa finisce. Un tale entra nella macchina, spegne il motore, esce, e tutti se ne vanno. Dove prima c’era la festa, il buio e la mondezza regnano di nuovo incontrastati.


Seguimi. fa Marcellino.
Scavalla la collinetta e arriva davanti alla macchina/discoteca. Vista da vicino fa un’impressione peggiore. È un catorcio senza ruote e con gli interni inesistenti. Si è salvato solo il cruscotto, e i fratelli poveri dei balletti russi devono averci lavorato un po’ per cambiare la batteria, far funzionare il motore quel tanto che basta, e montare autoradio e casse, tutto rigorosamente di infima qualità.
Mentre osservo l’impianto, con la coda dell’occhio intravedo Marcellino che fruga in un cumulo di rottami. Ne riemerge con due spranghe arrugginite, me ne lancia una e mi guarda. Capisco che stiamo per fare qualcosa degno del più infame degli infami, una cattiveria gratuita, di più: un’ingiustizia… poi meno il primo colpo, sfondando il voofer di una cassa.
Marcellino si unisce al coro, e in breve è tutto distrutto: quelli hanno finito di ballare, poco ma sicuro.


La sera dopo ritorniamo a dare un’occhiata, verso la stessa ora. Appena scesi dall’auto ecco di nuovo il vociare, il battere di mani… non è possibile!
Saliamo di nuovo la collinetta per lo spettacolo più angosciante della nostra vita.


La loro discoteca sta lì, distrutta, ma sul cofano in piedi c’è uno con due torce elettriche in mano che urla come un maiale squartato: de ritti o’ de naait ooooie, oie de ritti o mailaif, oie, oieeeee.
Si agita come un epilettico, ma dalla faccia capiamo che si sta senza dubbio divertendo. Gli altri tengono il tempo e ballano, ballano, ballano, ballano, ballano, ballano, ballano, ballano.


Io inizio a sentirmi una putrida merda per quello che ho fatto, e per non essere neanche riuscito a farlo bene, visto che questi merdosi hanno ancora il loro schifoso ballo.
Marcellino invece ha lo sguardo fisso sul “cantante”, credo che si stia chiedendo se la spranga funzioni anche su di lui…

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oriente.

E allora mi raccomando: a casa, una doccia fredda e più concreto. Soprattutto questo: con-cre-te-zza!


Niente casa, niente doccia, niente concreto. Ho vagabondato per tutto il giorno, ritornando sui miei passi più e più volte. Mi sento precipitato d’un tratto, e controvoglia, in un oriente misterioso. I gas di scarico delle auto sono dei profumi inebrianti ed esotici, il rumore del traffico una musica suadente, i discorsi dei passanti una Babele di lingue dimenticate. Gli altri hanno ragione: sto lentamente perdendo il contatto con la realtà. Le nuvole sono di un grigio indefinibile, e cominciano a vomitare pioggia unta. La gente si affretta a cercar riparo. Io mi infilo nel primo bar che trovo.


Un cappuccino, grazie. E prendo anche un cornetto, posso?
Prego, si serva… Si accomodi: il cappuccino arriva subito.


Mi siedo ad un tavolino con due poltroncine fisse. Sono inaspettatamente morbide: affondo in una tiepida comodità. La musica e le chiacchiere degli altri clienti mi tengono compagnia: capisco che questo è un momento troppo bello per dividerlo con qualcuno… sarà un segreto: l’oriente esotico e sensuale è proprio qui, a neanche un chilometro da casa. Fuori inizia a piovere a dirotto. Vedere la gente fradicia che si affretta, mentre io sono qui al sicuro, mi da un senso di protezione. Questo bar è l’utero di mia madre, io sono solo un piccolo bambino che deve ancora nascere. I tuoni, di fuori, si rotolano e illuminano meglio dei lampioni; hanno tutta l’intenzione di spaccare il cielo… L’aroma del cappuccino e la sensazione al tatto della tovaglia ruvida mi agganciano di nuovo al presente. Poi lo sguardo va verso il bancone… Basta socchiudere gli occhi per mutare le luci natalizie in altrettante lucciole che indugiano sulla zuccheriera, vicino ai cioccolatini e alle pastarelle, quasi a sfiorare la mano di una ragazza triste. Una principessa. La pelle candida, bianca pallida. I lunghi capelli corvini lisci, fradici e unti. Le dolci labbra rosse, viola anemiche. Gli occhi profondi, incassati in occhiaie nere. Una visione d’incanto… una tossica del cazzo. Stai seduto, stai seduto… seduto… Mi alzo.


Posso aiutarti? Mi sembri affranta…
Che ce l’hai?
, quasi sottovoce.
C… cosa?
Lei si guarda intorno, innervosita.
Aho, ma che me stai a parà? - alza la voce - A dottó, so pulita… Saranno du mesi che nun me faccio!
Ti sbagli… io non sono un dottore. Ti ho vista così… preoccupata per qualcosa… e volevo aiutarti…
Me voi aiuta? Eh? Me voi aiuta? Bravo! Passame venti sacchi, si me voi aiutà, o rimmediame na dose, che senno vajo ‘n crisi.


Un filtro magico! Un mistico profumo che strega chiunque lo annusi… eroina! Faccio ancora in tempo a farmi i cazzi miei. Faccio ancora in tempo ad andarmene, tornare al cappuccino e alle innocue luci colorate. Dai, su! Un piccolo sforzo… girati… vattene. No, non devi dare spiegazioni, lascia stare. Tanto non gliene frega niente neanche a lei. Avanti! Non è così difficile!


Senti. Annamo ar cesso. Pe trenta sacchi te faccio na pompa. Dai, nun te va?
Pompa? No! Tieni!
- apro il portafoglio e le metto in mano cinquantamila lire - Prendi i soldi, non voglio pompe. Mi gira la testa e mi sento stordito.
Perché pompe? Non voglio le pompe. Io vorrei solo… solo che tu fossi felice. Prendi i soldi! Facci quello che vuoi.


Lei mi guarda in maniera strana per qualche istante, poi esce sotto la pioggia. Me ne torno al tavolo e rimango rinchiuso nel mio uovo fino a che non spiove. Non c’è quasi nessuno in giro, visto che è ora di cena.

Ho giusto infilato la chiave nella portiera della macchina, quando qualcuno da dietro mi sbatte per terra e inizia a frugarmi nelle tasche. È agitato, e riesco a sentire il suo sudore acido.
’ndo cazzo o tenghi? Dove cazzo ce l’hai?!!
Lei risponde per me, a pochi metri dalla macchina.
Aho! Vincè! Vacce piano! Sta nella tasca de ddietro! Mica o tenghi d’ammazzà!
Mi sfila il portafoglio. Poi mi grida nell’orecchio.
Fatte li cazzi tei. Nun fa a denuncia, che c’ho a siringa zozza ‘n tasca e te ribecco! Si capito?
Si… ho capito.
Alzo la testa e cerco di incrociare lo sguardo della principessa.
Scusa. – fa lei – Scusa, veramente… non volevo…
Aho, aׂnun volevo! Annamo, a zoccola! Pure scusa je chiedi! Ma comme: prima ce ‘nculi i sordi e poi ce chiedi scusa! Ma vedi d’annà affanculo. Daje, porco de ddio, che sinnó me ne vajo da solo, cammina!.


Si allontanano. Riprende a piovere.

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farsi pagare.

Grind, grind una cifra, veramente giù duro…, e su e giù con la testa, headbanging col volante in mano. Deicide a cannone e io neanche lo sento. Glen rutta bestemmie a tutto spiano e così mi arrivano solo i brandelli del delirio del mio compagno di viaggio.


No perché, cioè… sai che forza al concerto. Tutti presi da un pogo veramente estremo…


La macchina va, la strada è dritta per fortuna. Allungo la mano sull’autoradio per alzare ancora il volume.


….nte potente …sto brano del …zzo. Satan spawn the caco daemon, Satan spawn the caco daemon. Con la bocca fa un verso del cazzo tipo chitarra iperdistorta.


Finalmente un autogrill.
Dai entra, stronzo, che devo pisciare e bermi un Gatorade., dico io.
Io invece un paio di birre, straight edge., mi fa mentre entra nel parcheggio.
Neanche sa di cosa parla. Senti, gli dico, devi guidare; non è meglio se ti spacchi una ricca aranciata, coca, sprite, lemonsoda…
Ricco, si. Gin lemon, da panico. I superalcolici a quest’ora sono veramente un scelta radical…


L’ho già sbattuto ad un travetto del parcheggio. Mi manca la pazienza e lo odio, dopo sette ore di viaggio insieme lo odio.
Sentimi, lurida merda. Il fatto che andiamo in giro con la tua macchina del cazzo non vuol dire che puoi fare come porca madonna ti pare. Adesso tu ti bevi un succo di frutta del cazzo, rimonti in macchina e la smetti di rompermi i coglioni, e stai zitto, mannaggia cristo! Zitto! Capito?


Lui annuisce.


Lo mollo ed entriamo. Il posto è veramente ben fatto: bancone del bar lungo e fornito di tramezzini e panini vari. Tutta la parte supermercato con schifezze colorate e prodotti finto caserecci del cazzo. Le scale che portano ai bagni di sopra, e dei tavolini per consumare con calma.


Mentre vado al cesso già sono tornato di buon umore e così gli faccio: Per favore prendimi due medaglioni bollenti e un Gatorade a qualsiasi gusto. Tu prendi quello che cazzo vuoi, offro io., e vado su.


Io sono rincoglionito di mio, in più dopo sette ore di cazzate e grind/death a palla non capisco più un’emerita ceppa di cazzo. Niente di strano quindi se imbocco nel cesso delle donne. Apro la porta e vado in uno dei gabinetti. Chiaramente ci becco una zoccola spaventosa che sta pisciando reggendosi la fregna con una mano che è già fradicia. Mi guarda e continua. Io ho capito e glielo sbatto in bocca. Lei succhia, lecca, bacia… e ingoia tutto. Sto a duemila. Chi cazzo me l’avesse detto che nel cesso del cazzo dell’autogrill del cazzo questa troiona m’avrebbe succhiato il cazzo di merda. Ricco, ricchissimo.


Poi mi stringe.


Qualcosa alla gola che mi stringe. Con gli occhi storti cerco… mi sembra un laccio da scarpe. E dietro un'altra stronza che mi vuole strangolare. Stringe forte e l’aria manca… La pompinara sorride e si sditalina selvaggiamente, la qual cosa mi mantiene il cazzo duro nonostante la situazione.


Devi pagare! Devi pagare!, dice la bocchinara, mentre la troia col laccio stringe sempre più forte.
Pagare che? Che cazzo devo pagare, porco quel porco impalato da sei negri ebrei froci? Mignotte, troie del cazzo, se mi libero vi strappo la fregna e ve la ficco in culo… Ma non c’è un cazzo da fare, il fiato mi manca e me ne sto per andare. Sento la testa che mi batte forte e i suoni cominciano ad arrivarmi come attutiti.
Mi sembra che stia dicendo: Ma come non hai capito? Pagare il pompino. Io li faccio molto bene, ma quello che voglio in cambio è una vita. Sai, mi chiamano la vedova nera pompinara degli autogrill.


Che… nome del… cazzo! Ed è l’ultima cosa che dico prima di schiattare.

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internet guru.

Vedi… come dire: è una questione di anima. Di stile, certo… ma anche di anima!.


Poche, pochissime cose riescono a farmi cascare le palle più di un calcio ben assestato: gli stronzetti pseudo/intellettuali sono una di queste cose. Certe volte mi chiedo se quel porcaccio di dio non ce l’abbia con me: tutti io li devo incrociare questi scarti, queste mezze tacche.


La merda in questione avrà si e no una ventina di anni, un look tra una tuta da astronauta (film serie B) e una cacata in faccia, e un odioso sorriso a settantacinque denti, tutti bianchissimi.
Per fortuna non sta parlando con me, ma con una puttanella cicciona e truccatissima. Lei lo ascolta in una sorta di estasi rapita, un coinvolgimento totale. Negli occhi brilla un messaggio decisamente esplicito:
Dopo la manfrina me lo sbatti in fregna, vero?


Ma lui non sembra prestare molta attenzione a questo possibile sviluppo della serata: suppongo che la soddisfazione di aver trovato qualcuno che gli dia spago sia maggiore del naturale bisogno di svuotare i coglioni di quando in quando. Eccolo là: non bada più alla sua sigaretta che si consu-ma nel posacenere né alla sua birra, ormai calda come il piscio, ma parla, parla e straparla di… ma di che cazzo sta parlando?


Io ho cominciato per gioco, come molti. Poi è diventata una cosa più seria. Vedi… come dire (il suo marchio di fabbrica) il passaggio da lamer a hacker comporta una seria presa di coscienza… una… una rivoluzione etica interiore. È una specie di cavalleria moderna… i nostri computer sono i cavalli e i programmi che elaboriamo il nostro armamento. Ed è per questo che il mio nome in rete è Lancelot… Lancelot, capisci? Lancillotto: il cavaliere della tavola rotonda.


Cristo! È un Internet guru!


Lei annuisce, e il suo gozzo flaccido e incipriato tremula come gelatina di pesce. Non gli stacca gli occhi di dosso e potrei giurare di aver visto monaci tibetani meno concentrati nella meditazione. La schiuma sulla birra si è ridotta ad un’esile linea biancastra, dal che deduco che la sequela di cazzate stia andando avanti da almeno un quarto d’ora. Ad un certo punto la vacca distoglie gli occhi dal suo bello per una frazione di secondo e mi osserva. Solo ora mi rendo conto che è già un bel pezzo che sto lì impalato, in piedi davanti al suo tavolo. Ora si gira anche lui e mi fissa. Velocemente mi metto a cercare nel mio repertorio di facce un’espressione adatta al caso, ma la scelta (per eccesso di fretta) cade su un misto indefinibile di stupore e idiozia: pessima esca, ma il pesce abbocca ugualmente.
Scommetto che anche te navighi, eh? Dai siedi!


Come in trance obbedisco meccanicamente. La troiona si gira verso di me con uno sguardo di odio feroce, ma a colpirmi è più che altro una zaffata nauseabonda del litro di profumo da quattro lire che quella stronza si è versata addosso per coprire la puzza di merda del suo alito.


Allora! Come va? Io sono… anzi no: visto che siamo in tema di Internet, puoi chiamarmi Lancelot e lei… beh, lei non ha ancora un nick come me. Chiamala Gina, OK? Lancelot e Gina, o Ginevra. Con chi abbiamo il piacere di parlare, messere?
Con me.
Laconico. Laconico ma interessato a quanto pare… o sei della gidieffe?
Gidichè?
Dai, gidieffe… d’improvviso la sua voce assume un tono cospiratorio … la guardia di finanza, no? Ma tu no… con quella faccia. Secondo me sei uno di quei lamer schizzati che, come dire, passano la vita alternandosi tra punk rock e PC, dico bene? Eh, dico bene?
Lamer schizzati… schizzato.


Duro da ammettere, ma sto ancora cercando il filo del suo discorso. Devo sintetizzare e organizzare. Di solito ho dei tempi di reazione migliori, ma questo rigurgito che ho davanti mi fa l’effetto di una lenta.


Amico? Non sarai mica fatto, eh? No perché, fattelo dire: quello dell’hacker in preda è un mito da letteratura cyberpunk. Roba di fantascienza, il desiderio inconscio di annullamento e via dicendo. Quella roba ti fotte, lo sai? Non dare retta a quelli che ti dicono che si naviga meglio se ti cali questo o quest’altro… tutte balle, dai retta al fratello maggiore.


Cazzo. Ci sono quasi, smetti di parlare solo per un secondo, dammi il tempo di sistemare le idee e poi ti faccio veder…
FRATELLO MAGGIORE! No, fratello maggiore NO! Non è più il tempo di sintetizzare e organiz-zare: ormai devo vomitargli in faccia tutto.


Chi, tu? Tu mio fratello maggiore? Tu, proprio tu, immonda cacata di porco. Ti fotte, ti fotte roba di fantascienza in preda alle balle… quasi quasi… calarsi… calarsi che? Ma se tu fossi stato mio fratello maggiore mi sarei impiccato non appena raggiunta l’età della ragione (se non prima). Io ho un conscio desiderio di annullare te e questa scrofa imbellettata che ti grofola intorno. Con uno scatto di reni mi tiro in piedi, ma barcollo ancora per la rabbia.


Non riesco a dire un cazzo… allora spacco il boccale in testa all’Internet guru.


Poi: il grido di lui, lei che urla, io che urlo, i buttafuori che mi buttano fuori.
Il rumore dei loro anfibi sulle mie costole, dietro ai secchioni, è una scampanata di festa domenicale che mi risveglia sul pianeta Terra.

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