mercoledì 29 aprile 2009

begorath due.

Corsi. Corsi a perdifiato. Fuori di casa. Oltre in sentiero di ghiaia che portava al cancello di casa. Superato il cancello. Oltre Begorath. Oltre il Loch. Oltre la Scozia…

In realtà quando, sfinito, ruzzolai in terra, non stavo pensando a dove mai fossi giunto. Più che altro cercavo di non soffocare. L’umidità e l’aria fredda mi avevano mozzato il fiato. Era il 21 di luglio, ma il 21 luglio nella Selva di Dubhcrainn faceva freddo.

Mi rialzai guardandomi attorno. Non mi ero mai spinto così lontano nelle mie scorribande, ne ero certo. Come tutti i bambini del Loch, credo come tutti i bambini del mondo, avevo sviluppato, insieme ad i miei amici, una conoscenza pressoché perfetta del nostro piccolo mondo: nessun anfratto, nessun nascondiglio, nessuna scorciatoia ci era sconosciuta. Ma si trattava davvero di un piccolo mondo: il paese di Begorath, niente più che una manciata di case bianche sulle Highlands, sorte intorno ad una vecchia torre diroccata, e le piccole e rade propaggini del Dubhcrainn, tanto minacciose per noi piccoletti, però, che lì ambientavamo ogni sorta di gara di coraggio, gioco spaventoso o scherzo crudele, perlopiù alle femmine. La torre al centro del paese, invece, recava con sé una storia quantomeno curiosa.

Era l’anno del Signore 1034 e Coluim MacCinada, il primo sovrano di Scozia, passò a miglior vita. Per assicurarsi che al potere salisse suo nipote Donchad MacCrinain, aveva infranto la tradizione del tanistry. Il tanistry era una forma di proto democrazia in uso presso i Gaeli. In pratica alla morte di un re o di un condottiero il suo successore veniva scelto per elezione dai tutti i capiclan riuniti, e se questi non riuscivano a mettersi d’accordo, da tutti gli uomini adulti dei Clan. Ma MacCinada aveva fatto uccidere il tanis scelto dal consiglio dei Clan e nessuno se l’era sentita di farsi avanti in sua vece: il buon Coluim non aveva la più pallida idea di cosa fossero la pietà la compassione, e la cosa era ben nota a tutti.

Così ebbe inizio il regno di Donchad I.

Che fu un disastro.

Nel 1040 prese una clamorosa batosta dagli inglesi a Durham. Da bravo scozzese si diede alla fuga, ma a Bothgofnane fu raggiunto e ucciso da MacBethad, il signore di Moray, alleato degli inglesi, che succedette al trono. Nonostante MacBethad sia considerato una sorta di Nerone scozzese, bisogna dire che non era un diavolo poi così cattivo e che la Scozia conobbe con lui un periodo di pace.

Quando però MacBethad affondo la lama del suo kirk nel petto di Donchad, era stato assalito da un dubbio: era forse un sorriso di scherno quello che aveva letto nel volto del re, prima che rendesse l’anima al Signore? E che mai avrebbe voluto dire?
MacBethad lo scoprì diversi anni dopo, quando venne a sapere che Donchad non era morto senza lasciare discendenza. Aveva un figlio, forte e valoroso. Si chiamava Mael Coluim, ed ora che aveva raggiunto l’età adulta voleva indietro il regno che gli spettava di diritto. Se lo riprese nel 1057 quando a capo di una lega di Clan che mal avevano tollerato negli anni l’indole sostanzialmente pacifica di MacBethad, Coluim lo sconfisse, lo uccise e, tanto per chiarire una volta per tutte chi comandava, assunse il nome di Cenn Mor, il Grande Capo.

Tutto ciò ha attinenza con la torre di Begorath in quanto fu proprio in questa torre solitaria delle Highlands che il Grande Capo trascorse, in gran segreto, gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza. Lo sparuto codazzo di guardie fidate, precettori e servi che lo accompagnarono diede vita negli anni al paese.

Da noi si dice che Coluim, ormai praticamente adulto, non disdegnasse di gettarsi in romantiche avventure con le belle ragazze del villaggio e che, conseguentemente, nelle vene della gente di Begorath scorra qualche oncia di sangue reale.

Comunque, così dentro la selva non ci ero mai arrivato. Avevo completamente perso l’orientamento. Non ricordavo neanche da che parte stessi arrivando prima di cadere sfiancato come un cavallo. Continuavo a guardarmi in giro, stranamente calmo data la situazione. Poco avanti mi sembrava di intravedere, nella luce lunare che già non destava più la mia attenzione ammirata, l’ombra d’un sentiero, che però non sapevo dove si dipanasse. Le raccomandazioni di mia madre mi tornarono utili, più o meno.
«Non cacciarti nel bosco, James Malcom Bloomfield. Ma se mai dovesse passarti per la zucca la stupida idea di farlo, e temo che prima o poi accadrà, e dovessi perderti, bada a trovare un sentiero e seguilo in discesa. In discesa, hai capito? Da qualche parte arriverai. Da li chiedi aiuto.»

E così feci. Ma lo imboccai in salita. Pareva condurre dolcemente verso una collinetta incoronata da querce. Non avevo perso il senno, ma decisi che quella era la più grande avventura della mia vita: immaginavo che sarebbe finita con mia madre che me le suonava di santa ragione e proprio per quello volevo assaporarne il più possibile.

Rimasi in silenzio.

E lo udì.

Il fragore delle acque del Loch…

Così lontano mi ero spinto da giungere sino al promontorio del Drumnadrochit? Non potevo crederlo… avrei dovuto aver corso per miglia… impossibile… e poi era ancora buio… d’estate faceva giorno in un istante.

No. Non erano le acque del Loch. E il sentiero conduceva proprio nella direzione che volevo raggiungere, così mi incamminai.

Poco più di un mese prima, verso la fine della scuola, era venuto un professore dell’università da Edimburgo, originario di Milton e molto, ma molto amico della maestra, la signorina Alpine, a farci una lezione sugli antichi popoli della Scozia. C’erano gli Scoti, giunti dall’Irlanda al seguito di Re Fergus. C’erano i Britanni, più a sud, e da queste parti c’erano i Pitti. Il poco che si sa dei Pitti l’hanno narrato gli storici ed i generali romani che conquistarono la nostra terra più o meno all’epoca che vide le gesta di Gesù di Nazareth.

E tutti, indistintamente, ne parlano molto male.

Negli anni dell’università a Londra, mentre mi laureavo in letteratura, ebbi modo di dare qualche esame di storia. In particolare ricordo il mio esame di storia antica. Il professor Newcomb, che si professava apertamente marxista e filosovietico, dando non poche rogne al rettore, cominciava ogni anno accademico con la stessa frase:
«Eccovi qui, signori! Siete venuti per apprendere della buona, cara, vecchia storia antica di questa nobile isola. La prima lezione che dovete imprimere nelle vostre menti è la seguente: la storia la scrivono i vincitori!»

Nulla di strano, dunque, se tutti i resoconti dei Pitti non facessero altro che dire e ridire della loro ferocia, della loro crudeltà assoluta, dei loro sacrifici umani, del loro essere più bestie che uomini. Ma io non ero d’accordo. Non lo ritenevo possibile. Neanche una voce stonata, neanche un accenno, un nonnulla a qualcosa di più sui Pitti che non puzzasse necessariamente di cadavere. C’era solo una spiegazione plausibile: con ogni probabilità i Pitti erano veramente un popolo di bestie crudeli e selvagge, che indossavano pelli di animali e amavano più d’ogni altra cosa veder scorrere il sangue. Possibilmente a fiumi. Possibilmente quello degli altri.

E noi di Begorath, noi del Loch, ne eravamo, in qualche misura, i discendenti.
Tuttavia ciò che non raccontarono i romani, ci disse il professore di Milton, ce lo stavano raccontando, proprio in quei giorni, le pietre. Infatti, in seguito a dei lavori per l’ampliamento della tratta ferroviaria sino al Loch, città candidate Lochend e la stessa Milton, che poi avrebbe vinto ed avuto la sua stazione ferroviaria, erano state riportate alla luce delle antiche pietre scolpite, certamente risalenti ai Pitti. In seguito alla scoperta il governo diede inizio ad una campagna di scavi nei dintorni, un cantiere dei quali era stato aperto in un luogo della Selva di Dubhcrainn non particolarmente distante da Begorath. La parola “cantiere” mi colpì: mi immaginavo degli operai edili, come mio padre, che scavavano alacremente con le ruspe alla ricerca di tesori sepolti, ma scacciai quell’immagine dalla mente: mi parve subito troppo prosaica. Il professore di Milton avrebbe dovuto accompagnarci agli scavi il giorno dopo, ma dovette tornare in fretta e furia a Londra, per motivi che nessuno sa con certezza. Qualche malelingua andava dicendo che l’improvvisa partenza dello stimato professore avrebbe avuto a che fare con la passione di Alan Alpine, il padre della signorina Alpine, per la caccia, i fucili e l’onore di sua figlia. Gli scavi si interruppero quel giorno per non essere mai più ripresi, il professore di Milton non si fece più rivedere. Io rimasi con il desiderio inespresso di poter toccare queste antiche pietre. Allora non era vero che i Pitti non facevano altro che andare in guerra ed uccidere tutto ciò che gli capitasse a tiro! Avevano anche altri interessi nella vita.

Ed io dovevo soddisfare la mia curiosità.

Oramai ero in ballo.

Il sentiero avrei sempre potuto percorrerlo in discesa dopo. Dopo, si. Perché nella fredda luce lunare avevo intravisto un riflesso tra le querce sulla collina. E sapevo anche di che cosa si trattasse, per averne avuto esperienza mille volte quando andavo a trovare mio padre a lavoro appena uscito da scuola. Era un pezzo di nastro catarifrangente giallo, di quelli che si usano per delimitare gli incidenti d’auto, le frane ai bordi delle strade… o i cantieri.

L’alba mi colse che ero quasi arrivato in cima. Non avevo assolutamente calcolato le distanze. La collina sembrava molto più vicina. Appena vidi il sole rabbrividii. In un istante mi colpì la piena consapevolezza di ciò che avevo fatto, di ciò che stavo facendo.

Ero scappato.

Di notte.

Ero andato nel bosco.

Mi ero perso.

E non stavo cercando di tornare a casa.

Giunsi in cima e risolsi subito il primo mistero: il fragore d’acqua. Già quando l’avevo udito la prima volta, un’ora prima, mi ero scoperto a pensare che il rumore dell’acqua sulla scogliera assomigliasse, da lontano, al ruggito sommesso che faceva l’escavatrice che ogni tanto mio padre adoperava a lavoro. Non era somiglianza, era identità, come avrebbe rimarcato con orgoglio il mio docente di filosofia al liceo, il Signor Strand. Era infatti una escavatrice. Ferma, ma col motore accesso che rombava spargendo un odore di nafta che la rendeva ancora più aliena rispetto al posto in cui si trovava. Ripensai all’idea che mi ero fatto a scuola dei cantieri archeologici: proprio come i cantieri dove lavorava mio padre, alla fine!

In piedi, accanto alla macchina, c’era un uomo, un soldato in divisa. Sulla divisa, sulla ruspa e persino sul nastro catarifrangente giallo c’era la medesima scritta: NATO. Nonostante avessi solo sei anni sapevo cosa fosse la NATO: guai.

Nel 1959, giunse l’esercito al Loch. Avevano l’ordine di recintare una porzione non piccola di boschi per farne un campo d’addestramento speciale per gli incursori della marina. Si rivelò una mezza bufala, per fortuna. Nel senso che i militari recintarono l’area e proibirono severamente l’acceso a chiunque non fosse autorizzato, ma di operazioni militari all’interno, per un po’ di anni, non se ne ebbe nemmeno il sentore. Tant’è che la gente del Loch, specialmente i cacciatori, pian piano rimossero porzioni sempre più ampie della recinzione, tornando così ad appropriarsi del loro bosco.

Poi, nel ’63, l’anno in cui nacqui, il campo d’addestramento fu messo a disposizione della NATO. In pochi anni si riempì di americani che, a valle, a neanche dieci miglia da Begorath, edificarono una vera e propria base.

Non fu una scelta felice. La gente del Loch e delle Highlands reagì molto male. Già non amavano i pochissimi turisti che allora giungevano dalle nostri parti. Dopo tre generazioni i nipoti degli immigrati dall’Inghilterra o dall’Irlanda ancora venivano chiamati “gli stranieri”. Alla presenza dei militari quelli del Loch se la presero a male, sul personale direi. Da subito fu chiaro che gli americani non potevano azzardarsi a mettere il naso fuori dalla loro base del cazzo. A Braefild, Jack, uno dei ragazzi di Murray, si beccò sette anni di carcere per aver accoltellato un soldato in libera uscita che aveva osato appena posare lo sguardo sulla sorella. Un gruppo di contestatori provenienti da tutto il regno aveva bivaccato nei pressi del campo per settimane, lanciando insulti e uova marce a chiunque ne entrasse o ne uscisse. Quando finirono le uova cominciarono coi sassi. A quel punto intervenne la polizia. Il casino che ne seguì convinse tutti che sarebbe stato meglio se la gente del Loch avesse ignorato gli americani e se gli americani non avessero messo mai più piede nei paesi del Loch. Se ne potevano andare a Inverness a spadroneggiare con la loro arroganza transatlantica!

La loro presenza nel cuore di Dubcrainn era, quindi, ancora più strana e sorprendente delle pietre incise tra le quali, me ne accorsi solo in quel momento, mi stavo muovendo.

Si trattava di pietre alte, ma non altissime. Anzi parecchio più basse delle pietre di Stonhenge che avevo visto alla BBC. Comunque più alte di me. Erano scolpite in profondità, ma i solchi erano ricoperti da ciuffi di muschio bruno e da incrostazioni di terra. Solo allontanandosi di qualche passo era possibile coglierne il disegno nella sua interezza, ricostruendo con la fantasia e l’intuito i tratti cancellati dal tempo. In particolare quella che stavo osservando recava un disegno spiraliforme, circolare, complesso. Nell’intreccio delle linee curve intravedevo a tratti sembianze di animali, alberi, mostri…
«Ehi! Ragazzino! Che ci fai qua!?», la voce era alle mie spalle e mi sentì sfiorare la testa da una mano gentile.
«Sta tranquillo! Non voglio farti del male. Sono un militare, vedi?», mi disse accennando a mostrarmi i gradi, come se potessero per me significare qualcosa, qualcosa di rassicurante.
«Che ci fai qui solo a quest’ora? Allora dove è tua madre? Lo sa che sei qui? Scommetto che in questo momento ti sta cercando ed è mezza morta di paura.»
L’immagine di mia madre addolorata mi restituì la prontezza di spirito. E risposi come mi era stato insegnato.
«Fatti gli affari tuoi, americano! Mia madre scoppia di salute. E quando mio padre saprà che mi hai spaventato ti farà sputare i denti a calci!»
Ma forse ero stato un po’ troppo spaccone. Solo. Nessuno sapeva dove fossi. Forse avevano già cominciato a cercarmi, ma chissà quanto tempo ci avrebbero messo a trovarmi.
Intanto l’uomo mi guardava divertito.
«Allora credo che ti manderò il conto del mio dentista. Perché adesso tu mi dici dove sta casa tua ed io ti ci riporto. Senza storie. Marsch!»
Sono sempre rimasto in contatto, negli anni, col maggiore Stevens che, ripensandoci, quel giorno mi tirò fuori proprio da un brutto pasticcio. Ci siamo scritti. Per tanti anni, a Natale, mi ha spedito ora un cappellino della NASA, ora una carta stellare, nel ’72 addirittura un modellino dell’Apollo 11. Poi ci siamo rincontrati nel 1989 a Berlino, ed è stato bellissimo! E poi ci siamo ancora scritti per e-mail fino a che non se ne è andato, nel ’94, dopo una vita lunga e piena di soddisfazioni. Ma quella mattinata del 21 luglio quando mi riportò a casa, sotto gli occhi furenti dell’intera Begorath che nel frattempo si era mobilitata per le ricerche, lo odiai con tutte le mie forze. Lo odiai perché aveva scritto un finale infantile per la mia avventura coraggiosa. Lo odiai perché mio padre, costretto a ringraziare con riconoscenza un americano, andò in bestia e mi diede uno schiaffo. Lo odiai perché mia madre me ne dette molti di più una volta a casa, Nina non fiatò neanche, e perché dovetti sorbirmi il suo sguardo di fredda riprovazione per quasi un mese intero. Ma più di ogni altra co-sa lo odiai perché ero diventato lo zimbello dei miei amici.

E fu proprio per rimediare a quella insostenibile perdita di status che, di lì a poco, mi sarei cacciato in un guaio ancora più grosso.

E poi, quella ruspa…

Non stava riportando alla luce una specie di… fontana?