mercoledì 29 aprile 2009

begorath uno.

Mi chiamo Jim Bloomfield. Da bambino volevo fare l’astronauta.

E quella che sto per raccontarvi è una storia vera.

Era il 20 luglio del 1969, il giorno dello sbarco sulla Luna, e io avevo sei anni.
Non era la prima volta che mi alzavo prima dell’alba. Ogni volta che accompagnavo mia madre a Edimburgo per la sua visita di controllo bimestrale dal dottor Shyles, ci alzavamo prestissimo. La corriera che portava a Inverness partiva alle 06:00 spaccate, e da lì avremmo preso il treno per la bella Edimburgo, la città di Conan Doyle, che divenne nell’adolescenza uno dei miei autori favoriti. Mia madre mi svegliava nel cuore della notte sempre con la stessa frase, la stessa fino al 18 gennaio del ’86, quando morì e io già mi ero trasferito a Inverness, dopo il matrimonio e la laurea presa a Londra, e continuavo ad accompagnarla:
«Jim, tesoro. Dobbiamo andare.»
Al che io puntualmente rispondevo, fino al fatidico 18 gennaio:
«Si, mamma.»

Comunque sia, alle ore 04:56, ora di Begorath, Scozia (ore 22:56 di Houston, Texas, quindi da noi era già il 21) Neil Armstrong mise piede sulla luna e si fece la passeggiata più famosa della storia del mondo.

Questo è il ricordo più nitido che abbia della mia infanzia: non appena il vecchio Neil mise piede sul suolo bianco sporco, io mi precipitai alla finestra per osservare la Luna, protendendo così fortemente lo sguardo oltre lo spazio infinito fin verso gli astri, che per poco non mi uscirono gli occhi dalle orbite. Ricordo, persino nel lasso di tempo che trascorse tra il mio affacciarmi così teso verso il cielo ed il riceverlo, lo scappellotto bonario di mio padre che seguì. Era il suo modo di fare, di insegnare, di essere padre: una versione addolcita delle bastonate che nonno Angus gli rifilò a suo tempo per insegnarli la buona creanza e mettergli un po’ di sale in zucca, come era usanza tra quel popolo di pesci in barile che sono le comunità che sorgono nei pressi del Loch, il Lago. Ricordo pochissime sgridate da parte sua ed un solo suo schiaffo, che mi avrebbe dato di lì a poche ore. Per il resto solo una lunga, lunghissima, direi interminabile sequenza di scappellotti bonari che si accompagnavano regolarmente ad ogni lezione di vita.
«Papà! MacNamara dice che Babbo Natale non esiste!»
Scappellotto bonario.
«Santo Dio, Jim! Cosa aspetti a suonargliele!»
Oppure:
«Sai pà? Troy O’Connor, l’irlandese. È tornato dalla fiera di Beaufort Castle in sella ad un Clysdel che ha vinto alla riffa dei Bal…»
Scappellotto bonario.
«Idiota! Quante volte ti ho detto che quel pezzente irlandese non lo devi neanche nominare in questa casa?! E poi si dice Clydesdale, hai capito? Clydesdale.»
Ma anche:
«Papà. Ho chiesto a Tara Ballyon di sposarmi!»

Si fece serio. Non pretendevo certo che mi rispondesse, però…
«Hai 18 anni Jim! Non fare la mia fine! Dammi retta: guardati un po’ in giro. Dagli un’occhiata a questo mondo… Fai felice me e tua madre. È l’ultima cosa che da padre ti chiedo, perché oramai sei adulto… Và all’università. Va a Londra. Almeno provaci. Io non ho mai avuto modo di uscire da questo buco del culo del mondo, e l’Onnipotente mi è testimone che lo avrei voluto, con tutte le mie forze! Sono l’unica persona a Begorath che vede di buon occhio il turismo… La realtà è che vedere ogni tanto gente nuova ci vuole, altrimenti rischi di diventare scemo e di scordarti che esiste un mondo oltre questo paese, oltre il Loch, oltre questa stramaledetta Scozia! Ti ricordi quel giorno… quando Bill Armstrong…»
«Neil, pà… si chiamava Neil.»
«Neil, Bill… che differenza fa? Ti ricordi? Ti ricordi che corresti alla finestra per vedere gli astronauti? Eri così ingenuo…»
«Si. Non ero granché sveglio, per un Bloomfield di sei anni… Dalle Highlands non si distingue un uomo a più di un miglio… ed io pensavo di vedere fin sopra la Luna…»

Mio padre sorrise debolmente e mi fece un cenno con il mignolo destro. Non ne faceva da settimane. I dottori avevano detto che il Parkinson era all’ultimo stadio degenerativo, che non si sarebbe più mosso, che avrebbe a malapena cercato di biascicare qualche parola, che dovevamo stargli vicino perché di lì a poco non sarebbe “più stato in grado di comunicarci i suoi bisogni”. Poi disse:
«Non hai capito Jim. La Luna… la Luna, capisci? Non potevi vederla…»
«Si, pà. Non potevo.»
«No… Era… era dall’altro lato della casa! Dovevi andare alla finestra della tua camera per vederla!»

Il suo ultimo scappellotto bonario. Il giorno dopo se ne andò, lasciando mia madre nella disperazione. Partii per Londra, per laurearmi. Con mia moglie. Dopo essermi sposato.

Ma dobbiamo tornare un attimo a quel giorno di luglio.

Quello scappellotto mi aveva colto impreparato. Indispettito. Offeso. Non ero sciocco! Non pretendevo certo di vedere gli astronauti da casa. Io… volevo partecipare. Volevo guardare coi miei occhi la stessa Luna su cui stava camminando Neil. Ciò che ricordo con maggior nitore è che la delusione che provai quando in cielo non vidi la Luna mi precipitò in un istante nel vuoto e nello smarrimento profondo: era la prima volta, nei miei sei anni di vita, che provavo un’emozione così vivida. Poi arrivo il buffetto gentile di mio padre.

Esplosi.

E corsi via piangendo.

Ogni tanto capitava, quando mia madre me ne dava un paio di quelle buone dopo che ne avevo combinata una delle mie. Correvo in stanza a piangere. A volte, se ero particolarmente fortunato, ci trovavo mia sorella, che immancabilmente mi consolava e diceva:
«Mamma! Non essere così severa con Jimmy!»
«O impara adesso o non impara più! Mi ammazzo di fatica per tenere in ordine la casa, mentre vostro padre è fuori per lavoro. Il mio lavoro va rispettato come quello di Sean! Solo perché non è pagato non vuol dire che non sia lavoro! E tu, Nina, che gli anni di Jim non li hai più da un pezzo, dovresti capirlo più di chiunque altro in questa casa, e darmi una mano! E invece no! Per Dio! Passi le tue ore ad ascoltare quella… quella… non so neanche come definire il ciarpame che ascolti sul tuo giracoso e a leggere quelle riviste di capelloni che ti fai arrivare da Londra! E non so neanche perché tuo padre continui a pagartele senza dire una parola. Anzi… lo sai che ti dico Nina? Che ieri ho beccato tuo padre che le stava sfogliando divertito. Capisci? Divertito! Stamattina mentre usciva lo sai che stava fischiettando? Quella roba là… quella cosa che abbiamo visto alla tele ieri sera… da Londra… Con i Roland Stones che dicevano “Lascia che sanguini!” O Vergine Maria!»
Già perché a dispetto di ogni probabilità, la famiglia di Sean Bloomfield era l’unica, orgogliosa, proprietaria in tutta Begorath di un apparecchio televisivo, fin dal 1968, quando il signor Bloomfield lo vinse alla riffa annuale della fiera di Beaufort Castle. E il bello è che mio padre non ne fu, all’epoca, granché contento, perché aveva acquistato un bel mucchio di biglietti interessato al secondo premio: lo stallone Clydesdale dei Ballyon. Non c’era altro modo, per le scarse finanze della gente del Loch, di procurarsi una di quelle bestie eccezionali, la cui fama era giunta fino a Londra, tant’è che la principessa Margaret in persona un giorno giunse nella tenuta dei Ballyon per acquistarne uno. Il superbo stallone Clydesdale dei Ballyon era sempre stato il primo premio. Quell’anno, vedersi spodestato da una scatola di latta si dice sia stata la cagione del crepacuore di Somerled, il patriarca del vecchio Clan che, trascorsi gli antichi fasti della nobiltà terriera, aveva trovato nuovo prestigio nell’allevamento di qualità.

Tuttavia quando, pochi anni dopo fu l’odiato irlandese Troy O’Connor, il suo nemico personale, a vincere la bestia, mio padre non se ne ebbe poi troppo a male. La televisione, infatti, gli aveva aperto le porte di un mondo incredibilmente vasto ed inesplorato. Tutto per i suoi occhi. Fu subito dopo che “il mostro” entrò in casa Bloomfield, “mostro” lo chiamava la vecchia Sineadh, la cui rimbambitaggine oramai nessuno più a Begorath scambiava per “saggezza dei vecchi”, che mio padre prese a professare in paese eretiche teorie sui benefici del turismo e sull’importanza che il Begorath si aprisse ad una comunità più vasta di visitatori.
«Oltre il Loch! Oltre la Scozia!», diceva con enfasi in piazza ai suoi amici.

Si era perfino candidato sindaco con questo programma. Prese dodici miseri voti, compreso il suo e quello di sua moglie Mairi, ma non quello di sua figlia Nina, che aveva votato per il comunista Lanegan, quattro voti, quello di sua moglie Zenda escluso perché lei “non credeva nel sistema della democrazia rappresentativa”… questi immigrati inglesi! Nessuno, tra l’altro, sapeva di chi mai fossero stati il terzo ed il quarto voto. Si scoprì molti anni dopo, quando Argyle MacArthur confessò a Padre Kenneth sul letto di morte di essersi sbagliato a votare quel giorno, di non aver mai avuto il coraggio di confessarlo e che per questo temeva per la sua anima immortale. Padre Kenneth, che era stato altrettanto segretamente il latore del quarto voto, gli rispose che, poteva starne più che certo, Dio non bada a queste cose…
Quello si che fu un brutto colpo per il mio vecchio. Il Parkinson cominciò a manifestarsi neanche un anno dopo.

Sia quel che sia, quella maledetta notte di luglio, mentre Neil saltellava con gli Dèi, mio padre maturava la definitiva decisione di candidarsi Sindaco e nessuno di noi pensava a quanta cazzo di gente stesse morendo già da qualche anno di questa o quell’altra strana malattia a Begorath e dintorni, io non corsi in camera a piangere.

Corsi fuori casa.

Solo che non se ne accorse nessuno.