lunedì 14 maggio 2007

oriente.

E allora mi raccomando: a casa, una doccia fredda e più concreto. Soprattutto questo: con-cre-te-zza!


Niente casa, niente doccia, niente concreto. Ho vagabondato per tutto il giorno, ritornando sui miei passi più e più volte. Mi sento precipitato d’un tratto, e controvoglia, in un oriente misterioso. I gas di scarico delle auto sono dei profumi inebrianti ed esotici, il rumore del traffico una musica suadente, i discorsi dei passanti una Babele di lingue dimenticate. Gli altri hanno ragione: sto lentamente perdendo il contatto con la realtà. Le nuvole sono di un grigio indefinibile, e cominciano a vomitare pioggia unta. La gente si affretta a cercar riparo. Io mi infilo nel primo bar che trovo.


Un cappuccino, grazie. E prendo anche un cornetto, posso?
Prego, si serva… Si accomodi: il cappuccino arriva subito.


Mi siedo ad un tavolino con due poltroncine fisse. Sono inaspettatamente morbide: affondo in una tiepida comodità. La musica e le chiacchiere degli altri clienti mi tengono compagnia: capisco che questo è un momento troppo bello per dividerlo con qualcuno… sarà un segreto: l’oriente esotico e sensuale è proprio qui, a neanche un chilometro da casa. Fuori inizia a piovere a dirotto. Vedere la gente fradicia che si affretta, mentre io sono qui al sicuro, mi da un senso di protezione. Questo bar è l’utero di mia madre, io sono solo un piccolo bambino che deve ancora nascere. I tuoni, di fuori, si rotolano e illuminano meglio dei lampioni; hanno tutta l’intenzione di spaccare il cielo… L’aroma del cappuccino e la sensazione al tatto della tovaglia ruvida mi agganciano di nuovo al presente. Poi lo sguardo va verso il bancone… Basta socchiudere gli occhi per mutare le luci natalizie in altrettante lucciole che indugiano sulla zuccheriera, vicino ai cioccolatini e alle pastarelle, quasi a sfiorare la mano di una ragazza triste. Una principessa. La pelle candida, bianca pallida. I lunghi capelli corvini lisci, fradici e unti. Le dolci labbra rosse, viola anemiche. Gli occhi profondi, incassati in occhiaie nere. Una visione d’incanto… una tossica del cazzo. Stai seduto, stai seduto… seduto… Mi alzo.


Posso aiutarti? Mi sembri affranta…
Che ce l’hai?
, quasi sottovoce.
C… cosa?
Lei si guarda intorno, innervosita.
Aho, ma che me stai a parà? - alza la voce - A dottó, so pulita… Saranno du mesi che nun me faccio!
Ti sbagli… io non sono un dottore. Ti ho vista così… preoccupata per qualcosa… e volevo aiutarti…
Me voi aiuta? Eh? Me voi aiuta? Bravo! Passame venti sacchi, si me voi aiutà, o rimmediame na dose, che senno vajo ‘n crisi.


Un filtro magico! Un mistico profumo che strega chiunque lo annusi… eroina! Faccio ancora in tempo a farmi i cazzi miei. Faccio ancora in tempo ad andarmene, tornare al cappuccino e alle innocue luci colorate. Dai, su! Un piccolo sforzo… girati… vattene. No, non devi dare spiegazioni, lascia stare. Tanto non gliene frega niente neanche a lei. Avanti! Non è così difficile!


Senti. Annamo ar cesso. Pe trenta sacchi te faccio na pompa. Dai, nun te va?
Pompa? No! Tieni!
- apro il portafoglio e le metto in mano cinquantamila lire - Prendi i soldi, non voglio pompe. Mi gira la testa e mi sento stordito.
Perché pompe? Non voglio le pompe. Io vorrei solo… solo che tu fossi felice. Prendi i soldi! Facci quello che vuoi.


Lei mi guarda in maniera strana per qualche istante, poi esce sotto la pioggia. Me ne torno al tavolo e rimango rinchiuso nel mio uovo fino a che non spiove. Non c’è quasi nessuno in giro, visto che è ora di cena.

Ho giusto infilato la chiave nella portiera della macchina, quando qualcuno da dietro mi sbatte per terra e inizia a frugarmi nelle tasche. È agitato, e riesco a sentire il suo sudore acido.
’ndo cazzo o tenghi? Dove cazzo ce l’hai?!!
Lei risponde per me, a pochi metri dalla macchina.
Aho! Vincè! Vacce piano! Sta nella tasca de ddietro! Mica o tenghi d’ammazzà!
Mi sfila il portafoglio. Poi mi grida nell’orecchio.
Fatte li cazzi tei. Nun fa a denuncia, che c’ho a siringa zozza ‘n tasca e te ribecco! Si capito?
Si… ho capito.
Alzo la testa e cerco di incrociare lo sguardo della principessa.
Scusa. – fa lei – Scusa, veramente… non volevo…
Aho, aׂnun volevo! Annamo, a zoccola! Pure scusa je chiedi! Ma comme: prima ce ‘nculi i sordi e poi ce chiedi scusa! Ma vedi d’annà affanculo. Daje, porco de ddio, che sinnó me ne vajo da solo, cammina!.


Si allontanano. Riprende a piovere.