mercoledì 29 aprile 2009

sic transit gloria gaynor.

Questi tempi e questi luoghi miserabili meriterebbero di finire nell'immondezzaio della storia, non fosse per il fatto che noi ci viviamo.

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frenesia.

un racconto di Striker

Come ogni sera, da molto tempo a questa parte, mi ritrovo sulla veranda della villa di famiglia ad aspettare oziosamente che il sole beffardo si adagiasse oltre le alte colline che circondano la vallata, dove generazioni e generazioni di Saint Clair si sono avvicendate nella gestione di un patrimonio ormai dimenticato.

Rimango solo io, un nobile viziato che non ha mai osato sporcarsi le mani nelle vili questioni delle comune genti, tanto che, dopo aver liquidato tutti i beni mobili e immobili, sono rimasto a goderne i frutti nella più totale apatia.

Finché non incontrai lei.

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for president!

broken.

C'è qualcosa di indefinibile, di incredibilmente struggente in questa canzone...

begorath tre.

Nel fardello di esperienze di ciascuno di noi c’è il ricordo del giorno più importante della sua vita. Non è una cosa data una volta per tutte. C’è il giorno del diploma, che poi diventa la prima esperienza sessuale, che poi diventa il giorno della laurea, che poi diventa il matrimonio, che poi diventa quando nasce tuo figlio, che poi diventa quando si laurea.

Per me non è stato così.

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begorath due.

Corsi. Corsi a perdifiato. Fuori di casa. Oltre in sentiero di ghiaia che portava al cancello di casa. Superato il cancello. Oltre Begorath. Oltre il Loch. Oltre la Scozia…

In realtà quando, sfinito, ruzzolai in terra, non stavo pensando a dove mai fossi giunto. Più che altro cercavo di non soffocare. L’umidità e l’aria fredda mi avevano mozzato il fiato. Era il 21 di luglio, ma il 21 luglio nella Selva di Dubhcrainn faceva freddo.

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begorath uno.

Mi chiamo Jim Bloomfield. Da bambino volevo fare l’astronauta.

E quella che sto per raccontarvi è una storia vera.

Era il 20 luglio del 1969, il giorno dello sbarco sulla Luna, e io avevo sei anni.
Non era la prima volta che mi alzavo prima dell’alba. Ogni volta che accompagnavo mia madre a Edimburgo per la sua visita di controllo bimestrale dal dottor Shyles, ci alzavamo prestissimo. La corriera che portava a Inverness partiva alle 06:00 spaccate, e da lì avremmo preso il treno per la bella Edimburgo, la città di Conan Doyle, che divenne nell’adolescenza uno dei miei autori favoriti. Mia madre mi svegliava nel cuore della notte sempre con la stessa frase, la stessa fino al 18 gennaio del ’86, quando morì e io già mi ero trasferito a Inverness, dopo il matrimonio e la laurea presa a Londra, e continuavo ad accompagnarla:
«Jim, tesoro. Dobbiamo andare.»
Al che io puntualmente rispondevo, fino al fatidico 18 gennaio:
«Si, mamma.»

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